Introversione
Definizione
Se il dizionario corrente fosse arricchito delle notazioni fatte dalla moderna psicologia della personalità, l’introversione potrebbe essere connotata di caratteristiche più che lusinghiere. L’introverso è infatti sovente ricco di qualità come la sensibilità sociale, morale ed estetica, la disposizione all’uso di facoltà astrattive e simboliche, la tendenza ad inibire piuttosto che esibire le emozioni e le idee; con conseguenze di tipo sia morale che intellettuale. Sul piano morale, una certa tendenza al riserbo, alla prudenza, al rispetto; su un piano intellettuale una disposizione alla curiosità e al gioco introspettivo, alla contemplazione, alla fantasia e all’immaginazione; nonché un’attitudine generica all’elaborazione soggettiva delle informazioni.
Se fosse inquadrata sulla base di queste ricche disposizioni psicologiche, l’introversione potrebbe uscire dal cono d’ombra in cui è tuttora relegata. Nondimeno, ovunque si ponga attenzione, dall’istituzione scolastica al parlare comune, dalla carta stampata a internet, l’introversione è assimilata alla timidezza, alla ritrosia e persino alla superbia e all’ostilità. È dunque ancora sentita e descritta sulla base di un pregiudizio arcaico, di natura pre-scientifica, pre-psicologica.
Nei fatti la società attuale privilegia in ogni campo gli atteggiamenti estroversi: l’adattamento e il conformismo sociale e morale, la superficialità negli intrattenimenti e nella cultura, la reattività emotiva immediata, l’impulsività di azione, l’oggettivismo epistemologico (ciò che ci fa dire “Questo è vero!”) e morale (“Questo è giusto!”), la cordialità e l’apertura (anche superficiali), il pragmatismo, l’esibizione assertiva delle proprie qualità, l’attitudine al confronto e alla competizione.
All’interno di questo cono d’ombra l’introversione, lungi dall’essere riconosciuta per ciò che è – una modalità esistenziale e una strategia d’individuazione (un modo come un altro per difendere e accrescere la propria identità) – e lungi dall’essere acquisita dalla cultura corrente come un dato puro e semplice, viene il più delle volte gravata di giudizi di valore negativi, in grado di compromettere non solo una buona integrazione ma anche, e di conseguenza, l’evoluzione sana e autonoma della personalità.
La distinzione secondo Jung
Nella storia della psicologia, il primo ad aver operato questa complessa e piuttosto radicale distinzione fra introversione e estroversione è stato Carl Gustav Jung. Lo stesso termine “introversione” è stato coniato da lui per affiancarlo e opporlo al più comune “estroversione”.
Benché egli stesso si classificasse fra gli introversi, Jung introduce la descrizione caratteriale della tipologia introversa con termini non del tutto lusinghieri.
Nel suo “Tipi psicologici” scrive:
«Chi non conosce quelle nature chiuse, difficilmente penetrabili, spesso ombrose, che contrastano violentemente con questi caratteri aperti [gli estroversi], socievoli, spesso gioviali o almeno amabili, cordiali, che sono d’accordo o in lite con tutti, ma in ogni caso restano in rapporto con gli altri, agiscono su di loro e li lasciano agire su loro stessi?»
In prima battuta, dunque, Jung non può fare a meno di mettere in rilievo una differenza di caratteri a tutto favore degli estroversi. Certo, la fa anche nell’intento di sottolineare gli esiti drammatici nei quali sovente incorre la tendenza psicologica introversa, accentuando così la necessità di porre attenzione su di essa. Non di meno, resta viva la sensazione di un involontario pregiudizio: che quello introverso sia un carattere da “curare” più che da valorizzare. Anche se poi, nel seguito dello scritto, Jung tende alla descrizione il più “oggettiva” possibile dei due caratteri.
Lo stesso Jung, probabilmente, si considerava un reduce dall’introversione, un introverso “guarito”.
La distinzione corrente
La distinzione corrente fra introversione ed estroversione è, nella nostra cultura, gravemente compromessa dal pregiudizio.
In generale, dell’individuo introverso si dice che tende a ripiegarsi in se stesso, ad interessarsi in modo “morboso” del proprio mondo interno, con distacco e chiusura nei confronti del mondo esterno e dei contatti sociali; lo si percepisce come astioso verso i più fortunati estroversi e un perdente sul piano sociale. Per contro, dell’estroverso si afferma che é un individuo con spiccati interessi verso l’ambiente esterno, tendenza ad esprimersi e manifestarsi, e quindi facilità ad inserirsi nel contesto sociale. Relativamente ad introversione ed estroversione, dunque, si esprimono meri “giudizi di valore”, pregiudizi gravemente penalizzanti nei confronti di quella modalità psichica che è l’introversione.
Nel linguaggio quotidiano, la parola “introverso” evoca significati quali: chiuso, taciturno, insicuro, poco socievole, passivo; “estroverso” viceversa significati opposti, quali: aperto, comunicativo, spigliato, attivo, intraprendente. Per quanto si riconosca che molti introversi hanno una sensibilità e un’intelligenza fuori del comune, il loro modo di porsi, equivocato spesso come scostante e altezzoso, provoca reazioni di antipatia, mentre gli estroversi, ad eccezione di quelli insopportabilmente narcisisti e invadenti, sono giudicati generalmente simpatici.
Dunque, al livello del senso comune non si tiene conto del valore differenziale che l’introversione apporta al mondo in termini di rispetto reciproco, di elevata produzione culturale e di amore per la natura; né si tiene conto di quanto l’estroversione abbia contribuito al successo della società dei consumi, della valorizzazione della ricchezza materiale, della progressiva distruzione della natura.
Si può immaginare che prezzo di sofferenza e di dolore comporti questo superficiale pregiudizio quando vada a colpire dei bambini.
Bambini introversi
I bambini introversi sono percentualmente minoritari rispetto agli estroversi (forse non più del 10%); ma ciò che, di fatto, li rende gravemente a rischio é che, essendo bambini e perciò ingenui e spontanei per natura, non riescono a nascondere o camuffare ciò che sono, cosa che li rende più visibili e perciò più aggredibili rispetto agli adulti egualmente introversi.
I bambini introversi sono appartati e silenziosi, mentre la scolarizzazione, e non di rado le stesse famiglie, richiedono e impongono disponibilità continua alla relazione sociale e il valore assoluto della comunicatività. Sono sensibili e riflessivi, mentre il mondo scolare e quello sociale in genere “sponsorizzano” personalità competitive, orientate al successo e dunque adattate ai valori di forza e d’insensibilità propri della “casta dominante”. Sono fantasiosi e contemplativi (e perciò definiti “distratti”), fino al disadattamento rispetto ad un mondo sociale che esige pragmatismo e risultati rapidi ed efficaci.
Non é artificioso né esagerato dedurre da ciò che il bambino introverso sia oggetto di una vera e propria discriminazione quando non addirittura di una persecuzione.
Il falso sé introverso
Il mondo, dunque, è degli estroversi, che fanno il buono e cattivo tempo, imponendo per di più il loro modo di essere come parametro della normalità.
Gli introversi, che spesso hanno delle ricche potenzialità emozionali e intellettive, vivono in un cono d’ombra, defilati, frustrati, infelici. Fatalmente contagiati dal codice culturale prevalente, essi stessi finiscono per ritenersi inadeguati, meno capaci degli altri, gravati da tratti di carattere che, quando non patologici, giudicano comunque inadatti. Ciò li induce a nutrire un sordo risentimento nei confronti della natura, responsabile di un carattere che crea solo problemi, associato spesso ad una rabbia più o meno consapevole nei confronti della società che li umilia e li emargina. Alcuni, come non bastassero le sollecitazioni esterne ad essere “normali”, tendono a adottare, per mimetizzarsi, dei moduli comportamentali estroversi. Nella misura in cui ci riescono, realizzano tutt’al più un “falso sé”, una caricatura del loro vero essere.
La supremazia sociale dell’estroverso, con la conseguente emarginazione (e auto-emarginazione!) dell’introverso riflette, dunque, di una precisa gerarchia di valori. Si tratta di una gerarchia di valori banale, appiattita sugli schemi sociali attualmente più in voga, che risentono dell’andamento di una società orientata ai valori di mercato. La “brillantezza”, ossia la capacità di sapersi vendere; la “volontà comunicativa”, cioè la deferenza verso l’atto di scambio; la “solidarietà”, intesa come costrizione all’attivismo sociale; il “pragmatismo” e l’”utilitarismo”, adeguati a realizzare l’uso insensibile dell’altro essere umano e dunque il perseguimento del mito conformistico del successo, sono i valori dominanti, più facilmente assimilabili da individui poco riflessivi piuttosto che da individui inclini alla sensibilità, al distacco intellettuale e all’intelligenza critica.
Strategie di individuazione
Occorre, dunque, modificare questa banale gerarchia di valori. Mi si chiede: in che modo? Rispondo: creando dei paradossi.
Il primo paradosso consiste nello svelare che l’introversione esiste in quanto esprime attitudini biologiche altamente specifiche, necessarie alla sopravvivenza della specie umana nel suo complesso, attitudini che hanno pertanto un valore oggettivo. In un certo senso, l’attitudine introversiva rappresenta l’ultima e più moderna sfida che la specie umana abbia lanciato a se stessa, ad una specie che finora ha espresso il meglio di sé nel campo delle tecniche di dominio della natura.
L’introverso si volge dentro di sé perché là trova il suo ambiente elettivo: un mondo straordinariamente suggestivo e complesso nel quale gode del gioco combinatorio dei suoi oggetti mentali e confronta gli oggetti presenti nel mondo esterno con i prodotti della sua riflessione.
L’introverso, dunque, possiede l’attitudine a trasformare la sua sensibilità e intelligenza in concetti culturali; quindi ad usare il “mondo ideale” costruito dentro di sé sia per valutare il mondo reale (capacità critica), sia per creare un mondo nuovo (anche solo virtuale) qualora il mondo reale fosse insufficiente in qualche sua parte (capacità creativa). L’introverso dunque é sempre un individuo riflessivo (e in ciò esprime la sua capacità critica); ma é spesso anche un individuo creativo (e in ciò esprime la sua capacità d’invenzione e di rinnovamento del mondo). Egli giudica e inventa meglio di quanto in genere sappia fare l’estroverso.
Come ho argomentato nei miei libri, in particolare in Volersi male (2002), La logica dell’ansia (2008) e Il dramma delle persone sensibili (2021), e Luigi Anepeta ha a sua volta argomentato nel suo Timido, docile, ardente (2007), l’introverso ha la funzione socio-biologica di arricchire il “mondo delle idee”, il mondo della cultura riflessiva, il cui fine è sorvegliare e guidare il mondo delle tecniche.
Se si ammette questo primo paradosso, ne consegue un secondo, ancora più interessante, per il quale il concetto stesso di introversione viene a mutare radicalmente di segno.
Se i prodotti dell’introversione hanno un valore d’uso (psicologico) e un valore di scambio (in quanto prodotti culturali) allora, per natura, l’introverso dovrebbe oggettivare la sua attività psichica. Cioè, anziché isolarsi trasformando la sua attitudine in una patologia, dovrebbe seguire l’impulso naturale, che é quello di aprirsi al mondo secondo le sue attitudini specifiche. Oggettivare significa allora far cadere la stessa distinzione fra interno ed esterno. Se vedo la cosa dal punto di vista della psiche, nel momento in cui io, soggetto introverso, mi metto in rapporto con il mondo dei simboli (con uno stile di relazione affettiva; con una moda sociale; con l’autore di un libro morto secoli fa; con una musica composta a migliaia di chilometri di distanza da me; con un simbolo matematico che non esiste come oggetto materiale; con un silenzio riflessivo proscritto da un regime di obbligo comunicativo, ecc.), nel momento in cui mi metto in rapporto con questo mondo simbolico e lo posso oggettivare in un giudizio critico o nella creatività, allora io divengo parte attiva del mondo esterno. La mia introversione si estroverte come sensibilità, riflessività, creatività, senza passare per alcuna mimesi delle caratteristiche tradizionalmente attribuite all’estroversione.
Quello della giusta valutazione dell’introversione va considerato come un esempio di ciò che definirei come Neuropsicologia delle differenze individuali: lo studio di caratteri psicologici e neuropsicologici differenziali; cui dovrebbe a mio avviso seguire la formazione di gruppi per la valorizzazione di tali caratteri differenziali, soprattutto se minoritari. Tale disciplina dovrebbe esplicarsi in una prassi attiva: una pragmatica psicosociale, come amo definirla.
In rapporto all’introversione, l’attività dell’educatore, dello psicologo, dello psichiatra, dell’operatore sociale, dell’intellettuale tout court, dovrebbe allora consistere non solo nel curarne la peculiarità psicologica nel colloquio duale, ma anche nel creare contatti e gruppi di solidarietà, di studio, di sensibilizzazione, di difesa e di valorizzazione di quest’attitudine psicologica minoritaria, perché la società contemporanea sia indotta a riflettere sulla ricchezza umana che essa colpevolmente ignora, se non addirittura dileggia e perseguita.
Nicola Ghezzani
Psicologo clinico, psicoterapeuta
formatore alla psicoterapia
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