Dipendenza affettiva, le prime fasi
Sottomissione, idealizzazione e rimozione della rabbia
La rabbia è un’emozione naturale
Il bisogno affettivo è, negli esseri umani, naturale e necessario e qualora venga frustrato genera emozioni che vanno da un’iniziale stupore, all’angoscia di privazione fino alla rabbia di protesta.
Immaginiamo un bambino tenuto alla fame (di cibo o di amore) dalla madre. In una prima fase, il bambino prova impulsi dapprima di sconcerto, poi di angoscia, infine di rabbia. In questa terza fase, stringe i pugni, serra gli occhi, tende i muscoli del corpo e strilla come un ossesso. Il suo corpo e la sua anima esprimono una vivace protesta contro la situazione in atto.
La violenta espressione psichica e corporea è un richiamo diretto al proprio simile, incentrato su una mimica di protesta e un’esplosione emotiva rabbiosa. Il bambino denuncia la condizione di frustrazione organica in cui è tenuto e strepita per essere ascoltato e placato. Ha fame e vuole mangiare; è piccolo e si sente umiliato. Egli si esprime, lo fa sin da neonato, obbedisce a un modulo espressivo precostituito. Dunque, la rabbia va considerata un’emozione naturale, uno dei sentimenti di base della natura umana.
Infatti, in un secondo momento, se la rabbia non ottiene una risposta adeguata, in preda alla disperazione il bambino può cadere nella cosiddetta “depressione anaclitica” (descritta per primo da René Spitz): uno stato di torpore inerte e senza speranza, che può portare all’inedia e alla morte.
Dipendenza estrema e rimozione della rabbia
Analizziamo ora qualche scena di dipendenza filiale. Immaginiamo una bambina di otto o nove anni maltrattata dalla madre, che le sottrae i giocattoli cui è più affezionata per regalarli alla parrocchia, la quale provvederà a donarli ai “bambini poveri”; o per regalarli alla sorellina più meritevole. Un’umiliazione e una mortificazione più frequenti di quanto si possa pensare.
Immaginiamo ora una ragazza appena adolescente, di dodici o tredici anni, umiliata dalla madre, che le fa notare insistentemente che la sua amica è più brava e più aggraziata di lei, che viceversa lei è inetta e che i suoi tentativi di apparire diligente sono inutili, perché lei è e resterà sempre pigra e sgraziata. Ebbene, cosa osserviamo in questi e in tutti gli infiniti casi di dipendenza filiale? Osserviamo che bambine e ragazze riescono a sopportare con incredibile pazienza infinite deprivazioni.
Com’è possibile? Cosa è cambiato rispetto alla più sana e naturale dinamica infantile?
Ebbene è scomparsa la rabbia.
Queste bambine, come tanti altri bambini che sono fin troppo bravi e diligenti, ma lo sono controvoglia, o altri che invece sono inerti e depressi come vittime, in tutta questa infinita folla di bambini è scomparsa la rabbia. Come è stato possibile che un’emozione naturale sia scomparsa dal dizionario mentale di tanti bambini?
Insomma, perché è accaduto? Perché, nei due casi descritti, la bambina – estenuata da infinite deprivazioni (Masud Khan parlerebbe di un “trauma cumulativo”) – ha “scelto” di difendere il rapporto con la madre piuttosto che se stessa, quindi ha rimosso l’emozione che avrebbe potuto mettere in crisi quel rapporto: la rabbia.
L’idealizzazione
Abbiamo detto che la rimozione della rabbia può portare alla depressione grave e infine alla morte. Ciò accade solo in situazioni effettivamente disperate. In condizioni meno gravi, in cui c’è un margine di manovra, come fa il bambino a sopportare la perdita della rabbia e a sopravvivere?
Ebbene, la scomparsa della protesta dell’Io può avvenire senza troppi danni, cioè senza il crollo repentino nella depressione e nel rischio di morte, se viene compensata da una dinamica psichica difensiva gratificante. Questa dinamica è l’idealizzazione, una visione della realtà che ottiene due effetti, gratificanti sul breve periodo anche se dannosi sul lungo. Il primo è che migliora l’immagine del genitore; il secondo è che migliora anche la propria stessa immagine, rimuovendo i “difetti” propri e dell’altro. A questo modo si ottiene il paradosso di aver cancellato la realtà morale della “cattiveria”, propria e altrui. Tutto appare più bello, quindi sopportabile. Il bambino inerme costretto nella dipendenza, che ha tuttavia preservato la possibilità di pensare, preferisce immaginare un mondo in cui la “cattiveria” o non esista in generale o quanto meno non esista nel suo rapporto fondamentale col genitore. Solo in un suo costrutto immaginario privo di cattiveria egli può sentirsi al sicuro.
A difesa del genitore e del rapporto con lui possono attivarsi anche altre dinamiche psichiche, come l’amnesia retroattiva e l’isolamento affettivo: nel primo caso la vittima dimentica quanto è accaduto; nel secondo, vive in uno stato emotivo di anestesia e di apatia che gli consente di minimizzare la realtà degli eventi traumatici. Ma la difesa più frequente e più efficace è appunto l’idealizzazione.
L’idealizzazione impedisce al bambino e alla bambina, al ragazzo e alla ragazza di prendere atto che una madre o un padre possono non essere affatto un “buon padre” e una “buona madre”, possono cioè essere privi di alcuna disposizione genitoriale, e persino essere invidiosi e ostili nei confronti dei loro figli.
La rimozione del lato ostile (il lato “ombra”) del genitore serve a non crollare nella disperazione – quindi nella depressione grave – e a mantenere la relazione col genitore a livelli di sopravvivenza. Nondimeno, per compiere questa operazione mentale il prezzo pagato è alto, è una vera e propria manipolazione della propria mente: la mistificazione, cioè la falsificazione radicale della realtà.
A una prima falsificazione della realtà che riguarda l’identità altrui («Lui non è cattivo, è buono!») va aggiunta una seconda falsificazione, la falsificazione di sé, derivata dalla necessità di sentirsi buoni («Lui mi ama perché sono tanto buono. Se non mi ama è perché io sono stato cattivo!»). Il bambino si vuole buono, incapace di qualsiasi ostilità, quindi rimuove da sé la conoscenza del male e la reazione difensiva naturale, per assumere un’identità basata sul mimetismo e la sottomissione. Tuttavia, così operando egli genera un paradosso: il paradosso consiste nel fatto che più immagina un mondo buono, più lui diventa inerme e vulnerabile, esponendosi alla violenza.
La scissione dell’Io
La conseguenza della rimozione della rabbia e dell’idealizzazione è la sottomissione della propria identità alla volontà altrui, quindi la disposizione ad essere ingannati, manipolati, maltrattati. Il buonismo compulsivo, ossia la disposizione alla bontà forzata, darà luogo, col tempo, alla remissività e alla svalutazione di sé, quindi all’insicurezza ansiosa, alla dipendenza affettiva, al masochismo.
L’idealizzazione degli aspetti buoni e la rimozione degli aspetti cattivi, cioè della rabbia e dell’intelligenza analitica, producono a questo punto una scissione dell’Io. Con una parte di sé l’Io si adatta al rapporto; con un’altra vi si oppone, ma di nascosto, cioè in modo subdolo e colpevolizzato.
Nella scissione dell’Io, da un lato c’è l’Io mimetico, che raccoglie tutte le istanze di forzata sottomissione, quindi un Io adattato, buono, sottomesso, attivo nella sua compiacenza. Dall’altro, c’è quello che ho chiamato Io antitetico, l’Io che ha raccolto le istanze di protesta e le fantasie distruttive rimosse. Poiché è percepito come pericoloso per la relazione fondamentale, l’Io antitetico è scisso dalla vita cosciente e deprivato di espressioni adeguate nella vita reale. In quanto identità separata, l’Io antitetico percepisce se stesso come rabbioso, cattivo, colpevole, inadeguato alla convivenza nel mondo affettivo; si avverte come una minaccia per la coesione dell’Io sociale, quindi si nasconde e non si esprime, inibendo sempre di più la capacità di fornire una risposta integrata e consapevole.
Ma la salute passa sempre e soltanto per la cruna dell’ago di una scelta normativa elementare: tutte le disposizioni naturali (le emozioni, i sentimenti, i desideri, le passioni) devono avere una loro rappresentanza nella coscienza e qui essere poste in relazione dialettica fra loro e con la realtà. Il sentiero della salute è libero e normativo allo stesso tempo. La rabbia, l’odio, l’invidia, la vendicatività devono essere accolti nella coscienza per essere trasformati in una nuova percezione del proprio desiderio, in una visione più complessa dei propri sentimenti, in una accettazione consapevole e in una elaborazione del dramma di vivere. Infine la maturità raggiunta può evolvere in energia proattiva.
Scegliere il sentiero della salute
La psiche – come direbbe Borges – è un “giardino dei sentieri che si biforcano”: ad ogni fase carica di dramma, abbiamo sempre almeno due opzioni diverse. Si tratta di un labirinto non spaziale, ma temporale. I suoi sentieri sono le diverse conseguenze che sortiscono da ogni singola scelta. Spesso, tra due opzioni scegliere l’una piuttosto che l’altra può essere fatale.
Prendiamo in esame, ora, la dipendenza affettiva adulta.
Una donna è stata educata alla sottomissione, quindi crede che la sua devozione sacrificale verso l’amato sia vero amore e che sia sufficiente a generare altro amore. Quindi, se è innamorata, smania per lui, vuole essere vista, notata, preferita fra tutte; e quanto più il suo amato è lontano o indifferente tanto più lei moltiplica gli sforzi per essere notata. Se è già in una relazione di coppia, fa tutto quanto è in suo potere per dare soddisfazione al suo uomo: si sacrifica per lui, gli dona ogni sua risorsa, annullando se stessa. Più che di amore dovremmo parlare di “devozione sacrificale”, una modalità di rapporto nella quale uno dei due agenti annulla se stesso per l’altro, rimuovendo gli indici del proprio malessere e idealizzando il rapporto.
Ma chi non ha altra concezione dell’amore che la devozione sacrificale sbaglia sempre l’oggetto su cui dirigere le proprie attenzioni. Perché avendo dell’amore una concezione unilaterale, non cerca un uomo (o una donna) capace di reciprocità, cioè capace di restituire l’amore ricevuto; cerca piuttosto una persona “difficile”, che le richieda proprio quella forma patologica di amore. A questo punto, la dipendente, poiché non è amata, comincia ad essere essere infelice: il suo amato non è affettivo, pensa solo a se stesso, oppure, se è un narcisista e un manipolatore, la sfrutta e la maltratta. Oppure ha bisogni smisurati, che non possono essere soddisfatti in una relazione di coppia.
A questo punto di fronte a questa donna si aprono due o tre opzioni psichiche possibili.
1) Il sentimento di indegnità. Incapace di vedere le colpe del suo idolo, può sentirsi indegna del suo amore, forse dell’amore di chiunque, andare alla ricerca dei propri difetti, degli sbagli che ha commesso – veri o presunti – e affogare nel mistero dell’indifferenza dell’altro. Per questa via, che enfatizza il rifiuto e la condanna da parte del suo idolo, la dipendente affettiva precipita nella depressione.
2) Il sentimento accusatorio. Comincia a pensare che indegno di amore sia lui, non lei. Lei gli ha dato il possibile e lui ha goduto del suo sacrificio disinteressandosi a lei, ha vissuto come se lei non esistesse, ha avuto altre donne, oppure la ha maltratta, umiliata, offesa, talvolta con ignobile crudeltà. In lei cresce una rabbia incontenibile. Allora, si scaglia contro di lui con violenza, rivendicando ciò che gli è stato tolto, punendolo con ferocia. E si arriva a scontri mortali. In questo caso, la dipendente fa lo sbaglio di chiudersi nel suo odio e di vedersi solo come furia vendicatrice. Così facendo si condanna ad una nuova forma di dipendenza, una dipendenza che ha evacuato l’innamoramento e si è riempita di odio. Per questa via la dipendente affettiva scivola nell’aggressività isterica, nel caos bordeline, nella gelosia paranoica o, sottomettendosi di nuovo al sentimento di indegnità, nella depressione da senso di colpa.
Due sentieri, due sbagli capitali. Nei miei libri (vedi soprattutto L’amore impossibile (2015), L’ombra di Narciso (2017) e Relazioni crudeli (2019) ho chiamato il primo sentiero “dipendenza depressiva”, il secondo “dipendenza conflittuale”.
Ma c’è anche un terzo sentiero. La dipendente affettiva può capire il suo errore di partenza: capire che se ci si muove nel mondo delle relazioni con la compulsione al sacrificio, con l’astratta idealizzazione del partner e con l’inibizione ad ammettere che l’amore esiste solo nella reciprocità, allora prima o poi apparirà qualcuno che la sfrutterà con egoismo e con cinismo. Quindi potrà altresì capire che le sue sofferenze dipendono da lei stessa, cioè dalla sua vulnerabilità all’illusione e all’inganno. Nella sua vita non sarebbe mai esistito alcun “narcisista manipolatore” se non l’avesse permesso lei. Se comprende questa verità nascosta, allora può sciogliere il nodo masochistico che la lega al suo persecutore. Per questo sentiero, per il quale è fondamentale la conoscenza di sé, si perviene alla salute.
La salute psichica è la conoscenza di ordine superiore dei propri limiti, quei limiti che hanno prodotto una trappola esistenziale. Una conoscenza che ne implichi da un lato l’accettazione, dall’altro il superamento. L’accettazione di un temperamento sensibile e cooperativo; ma dall’altro il superamento della sua deformazione masochistica e dipendente.
Purtroppo, prendere la via sbagliata è facilissimo, perché per sbagliare basta sentire senza pensare, reagire senza riflettere. Per sbagliare è sufficiente credere «che la realtà sia quella che sia vede» – come dice un verso di Montale. Mentre, al contrario, per essere sani occorre fare uno sforzo mentale di ordine superiore. Occorre capire che – nella strutturazione della coscienza, quindi nella psicopatologia – noi stessi siamo la nostra trappola e che l’altro è solo una nostra creazione; e occorre altresì capire che la prima legge morale da rispettare è chiedersi in che modo noi stessi stiamo creando il nostro nemico e il nostro persecutore (esterno e interno).
Bibliografia dell’autore
Ghezzani N., Volersi male, FrancoAngeli, Milano, 2002.
Ghezzani N., Quando l’amore è una schiavitù, Milano, 2006.
Ghezzani N., L’amore impossibile, FrancoAngeli, Milano, 2015.
Ghezzani N., L’ombra di Narciso, FrancoAngeli, Milano, 2017.
Ghezzani N., Relazioni crudeli, FrancoAngeli, Milano, 2019.