Anoressia sentimentale e controdipendenza isterica
Analisi di una testimonianza
Prima parte. La testimonianza
Salve dottor Ghezzani,
mi chiamo Amedeo, ho 22 anni, sono omosessuale e ho una relazione da più di un anno con un ragazzo. Premetto che sono in psicoterapia da alcuni mesi, perché sono entrato in crisi al quinto mese della relazione, appena passata la fase dell’innamoramento.
Tornati da un lungo periodo passato in simbiosi, appena separati, è cominciata la crisi. D’un tratto, lui non mi andava più bene, lo volevo più acculturato, più deciso, più potente, meno affettuoso, più duro, più “stronzo”, meno effeminato, e ho cominciato un ciclo di tentati allontanamenti, di non riuscirci e tornare da lui. La psicoanalisi ha orientato in maniera più positiva il mio pensiero, analizzando le cause di tale rapporto in uno spezzettamento del mio oggetto d’amore. Capita spesso infatti, che se lo vedo bello, allora è tutto a posto, se lo vedo brutto (si parla anche solo fisicamente), comincia a non andarmi bene niente e mi chiudo in me stesso disprezzandolo, cosa che avviene anche alla minima battuta o situazione che non mi aggrada. Quando passiamo giorni assieme come nella fase dell’innamoramento, allora tutto torna a posto.
Ultimamente però è venuta meno la modalità del rapporto fusionale, nel senso che entrambi abbiamo acquistato autonomia, una vita, esterna alla coppia, ricca di amicizie, studi, e un rapporto più libero. Riesco benissimo a fare le cose senza di lui, senza ricorrere a lui, ed è venuto meno anche il mio ossessivo tentativo di migliorare la sua immagine, non facendo comunque cadere l’affetto che provo per lui.
Abbiamo momenti di grossa intimità e affetto, quando io ho crisi ne parliamo serenamente e affrontiamo le difficoltà, anche se devo stare attento a non parlare solo di me e della mia situazione, perché si rischia di fondare il rapporto solo su quello. E c’è da dire (cosa non di poco conto) che tutto questo periodo di crisi a lui lo ha rafforzato moltissimo anche sul piano della profondità, passando dall’essere piuttosto superficiale a cogliere le profondità delle cose e della vita… E’ diventato un po’ più filosofo; come me diciamo!
Però ogni tanto lo rivedo “brutto” e allora mi irrigidisco; lo stesso accade quando fa riferimento a qualcosa di poco acculturato, e comincio a notare i difetti, come l’essere effeminato, debole, che mi portano a disprezzarlo. Quando lo vedo a fianco di altri mi sembra più piccolo, più molle… poi mi allontano, raffreddo la mente e il rapporto migliora… Ma permane comunque la sensazione di voler qualcuno più potente, “stronzo”, allora penso “non lo amo, è la dipendenza che mi incastra!” e vado in crisi; poi penso che in fondo è buono, bello, gentile, amorevole (è proprio quello che mi dà fastidio, vorrei qualcuno che non mi mostrasse affetto) fedele, serio, simpatico, affidabile, e anche se questo è così perfetto da darmi noia, penso che in fondo è un rapporto che vale la pena continuare.
La mia terapista mi sconsiglia di incastrarmi in angoli mentali pensando alla dipendenza (che secondo lei, non c’è o comunque non è grave). Secondo lei dovrei comprendere che applico il meccanismo di crearmi un oggetto d’amore per poi distruggerlo (come una tana, per poi distruggerla per far vedere come sono autonomo) con qualsiasi persona mi mostri particolare affetto (segno di un legame ancora profondo con mamma, che non permetterebbe creazione di legami forti escluso quello con lei). Secondo lei, cambiando storia non cambierebbe la mia modalità di relazione, perché qualsiasi persona e oggetto d’interesse dopo un po’ la svaluterei, disprezzandola.
Se a questo aggiungo il fatto che spezzetto qualsiasi cosa in “positiva” e “negativa” e voglio “uccidere” la parte negativa, facendo di quella parte il tutto, così come voglio “uccidere” l’oggetto d’amore (i momenti in cui lo vedo brutto, in cui lo vedo affettuoso, il ritorno stesso dalle vacanze farebbero una catena di “pezzetti” negativi di oggetti d’amore non graditi che io voglio estromettere dal rapporto… facendo così anche con me, se mi percepisco diverso e negativo rispetto al “me stesso” della prima fase dell’amore, finisce che voglio far fuori anche me stesso…). Aggiungo il fatto che ho costruito il mio ragazzo inizialmente come un dio, salvo poi accorgermi dei suoi limiti e volerlo allora buttare via, si spiegherebbe il motivo del disagio, che crescendo è andato proprio ad appigliarsi a lui stesso come mio salvatore e incolparlo se non compie il suo lavoro (di fatto impossibile).
Caro dottor Ghezzani, la lettura dei suoi libri mi ha fatto capire che lei è uno specialista di queste problematiche. Secondo lei, sono sulla buona strada?
grazie dell’attenzione!
Amedeo
Seconda parte. La mia analisi
La dinamica psicologica. La mail di Amedeo testimonia di una tendenza dell’immaginario e della relazione affettiva sempre più diffusa nel mondo contemporaneo.
La terapista di Amedeo (con la quale ho significativi punti di contatto) si avvicina a questa tematica attraverso il concetto di relazione parziale (spezzettare il legame affettivo per non viverne l’intero) e di dipendenza edipica dalla madre.
Il mio punto di vista è simile per quanto attiene alla psicodinamica della relazione, ma molto diverso per ciò che attiene alla genesi della struttura di personalità e quindi anche alla strategia di uscita. Vediamo in che direzione va la mia interpretazione.
Amedeo è un ragazzo molto giovane che, verosimilmente, ha problemi nella sfera dell’autostima, che ripara con un certo narcisismo. In sostanza, si sente insoddisfatto di sé quanto meno per la giovane età e per una vita segnata dalla fatale dipendenza dalla madre e dal mondo adulto in genere. Non ha, dunque, compiuto una maturazione (una “individuazione”) sufficiente a farlo essere in armonia con se stesso e con le potenzialità integrative e unificanti degli affetti e della sessualità.
Prova una incoercibile attrazione per la figura maschile forte, potente e dura (lo “stronzo”, come la chiama lui). Nel suo concetto di durezza è implicito il cinismo relazionale e la capacità di seduzione e abbandono. Lo dice lui stesso: appena vede il suo ragazzo come un debole,
“ogni tanto lo rivedo “brutto” e allora mi irrigidisco; lo stesso accade quando fa riferimento a qualcosa di poco acculturato, e comincio a notare i difetti, come l’essere effeminato, debole, che mi portano a disprezzarlo. Quando lo vedo a fianco di altri mi sembra più piccolo, più molle…”.
A quel punto il giudizio di condanna – che si esprime attraverso il disprezzo – viene accompagnato dalla evocazione dell’oggetto ideale d’amore:
“permane comunque la sensazione di voler qualcuno più potente, “stronzo”, allora penso “non lo amo, è la dipendenza che mi incastra!” e vado in crisi”…
La cosa era già del tutto chiara sin dalle prime battute della sua mail:
“Tornati da un lungo periodo passato in simbiosi, appena separati, è cominciata la crisi. A me lui non andava bene, lo volevo più acculturato, più deciso, più potente, meno affettuoso, più duro, più “stronzo”, meno effeminato…”
Una dinamica psicologica piuttosto crudele e tuttavia ambivalente. Perché mai un individuo che afferma di cercare amore può invece infatuarsi di un oggetto ideale duro e anaffettivo, l’esatto contrario di ciò che di solito si vorrebbe vedere nell’oggetto amato, il quale dovrebbe ricambiarci? E perché mai, quando Amedeo disprezza il suo compagno, lo fa divenendo lui stesso quell’ideale (duro e anaffettivo) che vorrebbe trovare nel suo oggetto d’amore?
La spiegazione è sia psicodinamica che socioculturale.
L’ideale dell’Io. In senso psicodinamico, Amedeo, nella fantasia ricorrente in cui definisce il suo oggetto di desiderio, vuole assumere una posizione psicologica passiva nei confronti di un maschio duro e anaffettivo. Ma analizzando più da vicino il fenomeno, possiamo osservare che egli ammira quel tipo d’uomo contro le buone qualità del suo compagno, affettivo e affidabile. Amedeo ha, dunque, dentro di sé un ideale dell’Io di quel genere: egli aspira ad amare un individuo spietato, che sappia disprezzare e così padroneggiare ogni bisogno di natura affettiva, ma solo nell’esatta misura in cui non può lui stesso essere quell’ideale. Vorrebbe esserlo, ma non può; quindi lo ammira (e lo invidia) contro il suo compagno. Poiché sentimenti di colpa e di indegnità glielo impediscono, egli ammira e invidia nell’altro ciò che lui vorrebbe essere, e, in senso masochista, crea una dinamica nella quale lui è quello destinato a soffrire proprio perché non è ciò che vorrebbe essere.
Si tratta di una dinamica che rivela una precisa struttura di personalità: il suo Io è conteso fra un Super-io repressivo che gli impone la dipendenza relazionale, e un ideale dell’Io narcisistico, cioè duro e anaffettivo, che si oppone al legame.
In senso strutturale si può definire una dinamica nella quale a un Io alienato incentrato sulla conservazione dei legami in un regime di adattamento passivo di dipendenza masochista si contrappone un ideale dell’Io antitetico opposto punto per punto alla modalità corrente dell’Io, quindi un ideale antitetico incentrato sull’attacco ai legami, sull’indipendenza compulsiva e sulla spietatezza relazionale.
La contrapposizione di queste due facce all’interno di uno stesso individuo determina un conflitto continuo per l’egemonia, che finisce per strutturare la personalità appena descritta: da un lato dipendente e pentita di esserlo; dall’altro passiva e masochista e in cerca di una figura forte e anaffettiva fino alla spietatezza cui sacrificare i propri bisogni di riconoscimento affettivo e di rispetto personale. Questa figura, in quanto idealizzata, è la parte che manca all’Io per completarsi, è cioè oggetto di un desiderio ossessivo, quindi di una frustrazione continua. Nella relazione di coppia è un fantasma onnipresente che funziona come un educatore sadico, incaricato del compito di “educare” l’Io a incarnare il modello desiderato attraverso le fasi di un rituale sadomasochista da vivere col partner.
Il rituale sadomasochista. La circolarità instaurata dalla pulsione dipendente e da quella controdipendente genera l’inconscio “gioco di ruoli” di un rituale sadomasochista: mentre il soggetto attivo (Amedeo) si assume l’onere di essere l’ideale dell’Io agognato, quindi il sadico insensibile e indipendente, colui che giudica e umilia; per contro, il partner è ridotto a soggetto passivo, forzato nel ruolo del masochista. Quest’ultimo è condannato a confermare la sua dipendenza relazionale e a non poter mai essere conflittuale, né a rivendicare dignità e autonomia. Nel frattempo, però, poiché il soggetto attivo non riesce ad essere compiutamente sadico (per angosce di colpa), l’ideale dell’Io forte viene proiettato all’esterno, in un “altro” inafferrabile, un mito da desiderare, invidiare e amare.
In questa complessa e sottile dinamica, l’amore viene concepito come una perdita secca, un rischio mortale d cadere nella dipendenza; ma nemmeno l’autonomia possiede un valore positivo: essa viene infatti identificata con la durezza e la spietatezza. Rimossa come motivazione matura, cioè relazionale, diviene il motore di una complessa e circolare dinamica di tormento sado-masochista.
In sostanza, la valorizzazione negativa dell’affettività intesa come passività dipendente e servile sottintende che la tendenza al coinvolgimento e al legame debba essere sempre in ogni caso disprezzata ed evacuata, ma che tuttavia la sua evacuazione, pur necessaria, è anche un delitto e una colpa.
In sintesi, l’individuo attivo e sadico vive la sua indipendenza come una virtù, ma nella rimozione sistematica di sottili e insidiosi sentimenti di colpa; l’individuo passivo e masochista vive la sua dipendenza come una vergogna, ma non come una colpa.
La dipendenza affettiva. Per inciso, questa dinamica ha molto in comune con la psicologia della dipendenza affettiva. Molte donne si tormentano del loro reiterato comportamento, per loro inspiegabile, di innamorarsi perlopiù di uomini freddi e violenti o comunque indifferenti nei loro confronti, uomini da cui ricavano solo dolore. Anche in loro ha luogo la stessa dinamica di molti soggetti omosessuali: l’ammirazione più o meno consapevole (nel ragazzo che mi scrive è consapevole anche se entra in scena in modo alternante) nei confronti di una figura maschile (ideale) forte e priva di affetti, talvolta spietata.
Si tratta di una dinamica frequente anche nel caso di uomini eterosessuali con aspetti masochistici e dipendenti. Questi uomini possono restare intrappolati dal fascino di una donna forte e anaffettiva, a volte bella, ma non meno spesso anche brutta e brutale, che ora li degna e ora li disdegna, ora si avvicina e ora si allontana, come una madre buona e cattiva allo stesso tempo, in una danza con la strega da cui non riescono mai a liberarsi.
Tutti questi casi, eterosessuali e omosessuali, mascherano con una dipendenza ambivalente l’angoscia di cadere in una dipendenza d’amore totale, che il legame con un individuo forte e insensibile dovrebbe scongiurare. Cioè, finché si ha come oggetto di desiderio erotico l’individuo insensibile, è impossibile sia innamorarsi che fare innamorare, e quindi è impossibile realizzare una vera storia d’amore.
L’ideale dell’Io spietato può essere sia interno alla coppia che esterno. Nel primo caso, il soggetto masochista sceglie un partner narcisista e, attraverso la seduzione adulatoria, il vittimismo e la dipendenza, cerca di controllarlo. Nel secondo caso, come per Amedeo, se nessuno dei due è davvero sadico, l’oggetto del desiderio si colloca all’esterno della coppia e con la sua ambigua presenza fantasmatica induce confronti e critiche crudeli e rende impossibile ogni forma di vero attaccamento.
La vita della coppia a quel punto è dominata dal terrore di essersi legati a un molle dipendente, un individuo di cui vergognarsi, oppure di essere ingannati, traditi, sfruttati, maltrattati, violentati da un partner narcisista in un rapporto nel quale ci si consegna a corpo morto come vittima sacrificale.
In entrambi i casi l’ideale dell’Io anaffettivo dominante ha spinto il soggetto a sviluppare una personalità incentrata ora sulla dipendenza masochista, ora sulla controdipendenza isterica.
Il rapporto psicoterapeutico. Come psicoterapeuta, mi trovo costretto a fare un’annotazione piuttosto triste. Nel rapporto psicoterapeutico è, almeno per ora, più facile risolvere questa dinamica nel caso di uomini eterosessuali e di omosessuali sia maschi che femmine piuttosto che di donne eterosessuali. Ciò perché il maschio eterosessuale e l’omosessuale, sia maschio che femmina, può far riferimento a una mascolinità sia psicologica che sociale che egli desidera e che se ben integrata gli consente di superare la posizione passiva.
Nel caso della donna invece questa passività può essere giustificata sia dai codici sociali e morali dominanti che da vantaggi sociali non secondari: quali l’affidamento all’uomo potente (ricco, influente o comunque “di carattere”) che funziona come una subdola e pervasiva lusinga. Per uscire dal masochismo relazionale, la donna dovrebbe far appello da un lato alla sua dignità di persona, quindi anche di donna, dall’altro alla dignità d’amore, al potere creativo della interdipendenza (oltre che alla sua dignità personale) come a una qualità positiva; cosa che la società contemporanea, orientata al potere, consente poco.
Il notevole vantaggio offerto dalla mia Psicoterapia dialettica rispetto ad altre terapie meno accorte sul piano antropologico è di consentire la presa di coscienza del rapporto fra gli ideali dell’Io soggettivi e il mondo storico-sociale, che li suggerisce e li rinforza. Questa presa di coscienza può consentire al soggetto in terapia di oggettivare facilmente il mito di cui è vittima e di agire in modo critico e differenziale, fino alla maturazione di una soggettività morale autonoma e sana.
Oltre all’oggettivazione del mito culturale, è necessario saper sanare le ferite più intime del dipendente ambivalente, tentato dal mito di forza insito nella chiusura sentimentale. Riporto, a proposito, le parole con le quali ho descritto nel libro La paura di amare (2012) la sindrome da evitamento affettivo che ho chiamato anoressia sentimentale:
In sintesi, l’anoressico erotico e sentimentale è qualcuno che ha individuato nella relazione sessuale e nell’amore la maggior fonte di sofferenza umana e ha deciso di privarsene per non soffrire. Talvolta è stato un bambino deprivato di amore in età nelle quali poteva avvertirne la mancanza, oppure un bambino o un adolescente intenzionalmente offeso, trascurato e non amato o anche trattenuto in un rapporto ora seduttivo ora rifiutante. Altre volte è andato incontro a lunghe sofferenze sentimentali in età adulta. Altre ancora, illuso di poter realizzare nel mondo scopi di ordine superiore e deluso in profondità in questa aspettativa, rinuncia alla vita e fa pagare all’innamorato/a il prezzo di questa catastrofica delusione.
In termini più generali, egli ha perso il dono della fiducia, ha smesso di credere nell’affidabilità degli esseri umani e nella capacità retributiva dell’amore (p. 23).
Psiche e società. Per quanto riguarda l’aspetto socioculturale, vorrei riportare un articolo, sempre sul tema dell’anoressia sentimentale, nel quale ho scritto:
In termini più generali, egli [l’anoressico sentimentale] ha smesso di credere nell’affidabilità degli esseri umani e nella capacità retributiva e restaurativa della fiducia e dell’amore. In modo più o meno consapevole, ha abbracciato l’ideologia anestetica contemporanea, intesa a far sentire forte, superiore, colui che relega la passione nell’altro, riservando per sé il ruolo del bell’indifferente, dello spassionato razionale, dello sprezzatore dell’umana vulnerabilità.
La mia esperienza umana e clinica mi suggerisce che questa condizione esistenziale va sempre più costituendo il “doppio speculare” della soggettività contemporanea. Per un verso animata da innumerevoli e frenetici desideri, l’umanità attuale va per altro verso elaborando una strategia di difesa per la quale ogni desiderio – ma soprattutto i bisogni relazionali – sono trappole da evitare.
Esce da questa patologia – invisibile in un mondo che la invidia e la favorisce – solo chi vuole uscirne e accetta l’idea che coraggioso non è chi reprime il desiderio, ma colui che accetta il rischio esistenziale di vivere fino in fondo le qualità specifiche della natura umana, fra le quali fa spicco proprio quella capacità di immedesimarsi, fondersi ed amare da cui l’anoressico sentimentale rifugge con disgusto e con paura.
Aggiungerei una nota di commento ancora più generale.
Le dinamiche relative all’anoressia sentimentale, sia di natura narcisistica che isterica, come quelle relative alla dipendenza affettiva ambivalente – che mostrano appunto forti ambivalenze amore/odio nelle relazioni affettive – stanno a segnalare una mutazione antropologica in atto nel mondo contemporaneo. Parlo di una frammentazione crescente del tessuto sociale: gli individui singoli, preda del mito ambiguo dell’autonomia assoluta e della realizzazione competitiva di sé, vanno distruggendo la rete dei rapporti conviviali tradizionali, per paura di umiliazioni, abusi e violenze in relazioni affettive che sono di fatto sempre più conflittuali.
Ciò fa sì che accanto a un dominante individualismo, faccia irruzione nella mente individuale e sociale un sentimento devastante di disgregazione e di perdita, di solitudine e di angosciosa insicurezza, tale che ormai la metà della popolazione occidentale e del mondo industrializzato in genere, fragile e insicura, fa ricorso abituale a “droghe” ansiolitiche o competitive. Innanzitutto il consumo ossessivo di beni, che sposta il desiderio dalle persone agli oggetti o alle persone usate come oggetti. Poi, la televisione e la rete, che propongono modelli di condotta stereotipici, di cui fanno largo uso il potere mediatico e la politica. Quindi, le droghe illegali, smerciate da grandi cartelli internazionali, che fanno affari anch’esse in complesse associazioni di interessi col mondo politico. Infine, gli psicofarmaci legali, prodotti da potenti lobby farmaceutiche, le quali hanno “mondializzato” la gestione del disagio psichico molti decenni prima della globalizzazione dei mercati di cui tanto si parla oggi.
L’incapacità di creare coppie, gruppi affettivi, nuovi intensi e appassionati sistemi culturali, fa dell’uomo contemporaneo il membro ansioso e infelice di una “folla solitaria” priva di direzione e di senso, facile preda di moderni demagoghi e mistagoghi e di una cultura sempre più estetizzante e superficiale, incapace di incidere nel pragma, nel muro grigio della realtà.
Terza parte. La mia risposta
Letta attentamente la lettera di Amedeo, trovai paradossale che egli, pur essendo coinvolto in una psicoterapia a mio avviso di buon livello, che aveva colto dei punti importanti della sua personalità, mi avesse scritto non per avviare una psicoterapia con me, ma per avere un giudizio da una sorta di “autorità super partes”.
Mi trovai di fronte a una domanda ambigua, un po’ subdola, perché si risolveva nella richiesta di un giudizio critico sull’operato di una collega. Sottilmente, Amedeo metteva in atto un attacco al suo legame terapeutico. E mi chiedeva di prender parte a questo attacco.
Mi sembrò importante allora salvare il loro buon rapporto clinico e la possibilità da parte di Amedeo di costruire una relazione basata sulla fiducia. Il tono che avrei dovuto usare avrebbe dovuto essere sia confidenziale che, allo stesso tempo, rigoroso.
Quindi gli inviai questa breve mail di risposta.
Eccola.
Buongiorno Amedeo,
ho letto la tua mail con molto interesse.
A me pare che la tua analista sia sulla buona strada e che stiate facendo un ottimo lavoro. Il dato problematico della personalità, diciamo, “controdipendente”, come la tua, è l’angoscia di essere incastrati in un legame intimo, cioè di essere costretti ad amare. Quindi si idealizzano, a scopo difensivo, situazioni anaffettive (la forza, il cinismo ecc.). Se ne fa un mito che tu ormai conosci molto bene.
Nel merito di questa tua difesa mediante controdipendenza, non penso ci si debba limitare all’analisi del rapporto con tua madre; il problema è anche l’ideologia che tu hai scelto. Una ideologia di indipendenza sistematica e di attacco ai legami. Si tratta di una tendenza inconscia, di cui pertanto non sei responsabile. Ma devi altresì tenere conto del fatto che si guarisce proprio attraverso un atto di responsabilità. Per quante buone interpretazioni l’analista possa offrire e il paziente capire, alla fine è sempre e soltanto l’atto di responsabilità da parte del paziente (ossia la sua presa di coscienza) a costituire il fattore decisivo del cambiamento e della guarigione.
Il fatto che tu mi abbia scritto, nonostante la buona terapia in atto, secondo me indica che stai sviluppando la paura di legarti anche a lei, alla tua analista. Il rapporto fra voi va bene, è fruttuoso e tu le sei riconoscente; tutto ciò ti rende consapevole che il legame con lei si va protraendo oltre il limite di guardia che mette in allerta le tue difese. Oltre questo limite, anche in terapia hai cominciato a temere di provare affetto per la tua analista, quindi di diventarne dipendente. Da qui la tua esigenza di “spezzare” il legame, cercando contatti con altri terapeuti.
Ti ringrazio della tua testimonianza, che è segno di stima, ma ti consiglio ora di confidare nel buon rapporto con la tua analista.
Quindi, onde evitare tuoi futuri attacchi a quel legame, ti suggerisco di dirle che mi hai scritto e di farle leggere questa mia risposta.
Un caro saluto,
Nicola Ghezzani
Bibliografia dell’autore
Nicola Ghezzani, La paura di amare, FrancoAngeli, Milano, 2012.
Nicola Ghezzani, L’ombra di Narciso, Franco Angeli, Milano, 2017.
Nicola Ghezzani, Relazioni crudeli, FrancoAngeli, Milano, 2019.