Attacchi di rabbia maschili da insicurezza
Definizione
Considero l’attacco di rabbia come un atto scongiuratorio che l’individuo compie per proteggersi dall’angoscia di una propria temuta impotenza. Lo considero come un “atto scongiuratorio” perché – sia pure per un tempo limitato – la repentina attivazione di una potente carica di ostilità permette di esercitare un controllo su un dubbio radicale relativo alla propria dignità umana.
Nel corso di un’interazione sociale, l’individuo incline a esplodere in attacchi di rabbia si sente d’un tratto insidiato da un insopportabile dubbio. Il dubbio ossessivo può apparirgli nella mente sotto forma di un’incipiente e catastrofica delusione oppure di un sottile bisbiglio calunnioso. Proprio mentre sta discutendo o sta pensando a come reagire ad una certa situazione, ecco che il pensiero ambiguo si presenta e gli impedisce ogni forma di azione. Un sentimento di insopportabile debolezza, la sensazione che quell’individuo lo stia irridendo e denigrando lo attanagliano, non gli danno respiro. In quell’istante, non solo egli deve sopportare la paralisi della volontà, ma anche l’umiliazione implicita nel dubbio ossessivo. A quel punto egli “alza la voce” e soffoca l’emergere di questa seconda voce, la voce antitetica, la quale sta mettendo in crisi non solo la singola azione, ma l’opinione che ha di se stesso.
Dunque, l’uomo incline a reagire a frustrazioni e insuccessi, anche minimi, con esplosioni di collera e attacchi di rabbia è un individuo insicuro sul piano dell’autostima e soggetto a intime e dolorose delusioni e umiliazioni. Il suo atto rabbioso intende ripristinare un livello minimo di sicurezza interna.
In sintesi: la tendenza all’attacco di rabbia sortisce da un’unica angoscia, l’angoscia di impotenza, declinata su due piani diversi:
1) la certezza di essere nel giusto e il rifiuto di sopportare la delusione della propria impotenza.
2) Il dubbio di essere in torto e la necessità di tacitare l’insorgere di una destabilizzante autocoscienza critica.
Descrizione
L’uomo incline all’attacco di rabbia è un individuo insicuro, insidiato da sottili e pervasivi dubbi circa la propria capacità di interagire in modo efficace con gli altri esseri umani.
In un caso, egli è tormentato dall’intima certezza di essere nel giusto, ma anche dalla delusione di non poter far valere le proprie ragioni. In alcuni casi si tratta di individui molto sensibili, dotati di uno spiccato senso di dignità e giustizia, che reagiscono d’impulso a una situazione che lede profondamente la propria sensibilità e la propria dignità umana. Ma poiché i suoi ideali dell’Io – ossia le sue esigenze nei confronti di se stesso – sono troppo elevati e hanno come riferimento i valori della competizione e della forza, la sua coscienza di impotenza si trasforma in accusa verso se stesso.
Per quanto doloroso, questo è un caso che attiene alla salute e presuppone lo sviluppo di una coscienza filosofica dei limiti umani: non sempre il mondo compiace le nostre esigenza e di questo dobbiamo farcene una ragione. Di questo caso ne tratterò in separata sede.
Nel presente articolo vorrei invece parlare del secondo caso, quello nel quale l’individuo teme di essere in torto, o in una falsa posizione relazionale ed esistenziale, e sente messa in dubbio la stessa dignità del suo essere umano e sociale. In questo caso, con l’attacco di rabbia egli intende tacitare il sospetto della propria temuta indegnità sia all’esterno, cioè nell’altro, che viene intimorito e sviato nel giudizio, sia in se stesso, perché l’esplosione rabbiosa gli appare come una prova autoreferenziale di forza, quindi di valore personale e di dignità umana.
Di che natura sono i dubbi relativi alla dignità umana personale che danno luogo alla sindrome da attacchi di rabbia? Nella nostra società ne vorrei distinguere di almeno tre tipi.
1) Dubbi di impotenza sociale
In primo luogo, il rapporto angoscioso con se stessi si manifesta con dubbi angosciosi di impotenza caratteriale e sociale. Chi soffre di questo genere di dubbi ha talvolta dei motivi oggettivi per farlo: per esempio è disoccupato e versa in precarie condizioni economiche, oppure vive in un ambiente sociale degradato. Ma l’oggettività non deve ingannare: l’angoscia ossessiva di impotenza è più soggettiva che oggettiva, perché all’analisi dei dati oggettivi, cui sarebbe possibile opporre azioni concrete di cambiamento, l’individuo insicuro oppone costantemente la segreta certezza d’essere un debole, un inetto, un individuo ridicolo e senza autorevolezza, oppure di essere un uomo integro e valido, ma costretto a vivere in un mondo sciocco e spietato, quindi di essere comunque privo di speranza.
Se si esaminano i giudizi di valore che costui esprime, si tratta, a ben vedere, di attribuzioni che non riguardano la propria condizione oggettiva (che sarebbe modificabile), ma la propria qualità intrinseca di persona o la qualità intrinseca del mondo, percepite entrambe come immodificabili. In sostanza, quest’individuo non è impegnato in valutazioni analitiche, bensì in giudizi morali. Tant’è vero che se possiede qualità evidenti positive (gode di buona salute, ha un buon lavoro, ha amici e una bella famiglia ed è apprezzato e rispettato), egli tuttavia non è mai soddisfatto del livello raggiunto, perché si confronta con modelli astratti idealizzati, senza alcun senso del limite.
Infine, la sua vita è un calvario di paure: non è abbastanza forte, sicuro, autorevole, rispettato, non è nemmeno capace di integrarsi in un gruppo di pari: in sostanza si sente indegno di essere parte del contesto sociale di riferimento, e di tutto questo prova un’intollerabile vergogna.
2) Dubbi di precarietà relazionale.
In secondo luogo, l’angoscia di impotenza si manifesta in rapporto al timore della precarietà delle relazioni. In questo caso, l’uomo è tormentato dal dubbio di essere inutile alla sua compagna o comunque di essere deficitario e insopportabile, quindi di poter essere abbandonato e restare solo, scoprendosi così ancora più impotente.
In preda a questi dubbi, egli si tormenta di gelosia per la sua partner: ogni uomo con il quale ella si intrattiene o ha un’amicizia gli appare come un potenziale rivale, da cui si sente insidiato e oltraggiato; ogni amica o confidente diventa una nemica: secondo lui, l’amica spinge la sua compagna a denigrarlo, isolarlo e lasciarlo. Insidiato da un’immagine interna di assoluta impotenza, egli teme che la compagna lo disprezzi per la sua minorità sociale o per la sua debolezza caratteriale o per una sua vera o presunta impotenza sessuale; o che lo condanni per via dei suoi aspetti caratteriali ostili e negativi.
Spesso ritiene che proprio le migliori qualità della sua compagna, quelle che più ama, renderanno possibile la sua denigrazione definitiva e quindi l’abbandono: se la compagna è intelligente, allora vedrà in lui la sua insufficienza; se è bella e attraente, allora prima o poi un uomo più valido di lui la conquisterà; se è aperta e socievole, troverà migliore compagnia; se è solitaria e riflessiva, prima o poi si renderà di che uomo noioso egli sia.
Quindi, è sempre a rischio di sentirsi svergognato e umiliato e di veder crollare la propria autostima. È costantemente insidiato da un sussurro paranoide, cui associa un possibile crollo della sua immagine interna.
Preda di un’angoscia da catastrofe imminente, reagisce con atti di violenza il cui fine è debellare quell’angoscia o anche semplicemente nasconderla il più a lungo possibile.
3) Ansie da ricatto giuridico.
Altre volte, infine, l’angoscia e la rabbia maschili esplodono allorché l’uomo si sente posto sotto ricatto giuridico, qualora sia costretto a pagare un assegno di mantenimento (per lui troppo elevato) per la compagna e i figli, e a subire sempre nuove richieste, e avverta ciò come ingiusto e umiliante.
In tutti questi casi, in cui si sente minacciato dalla rivelazione angosciosa della propria impotenza, l’uomo esercita una rabbia reattiva, ossia reagisce per impulso all’unico scopo di “difendersi”. Si sente “aggredito” dalla freddezza della società o della partner e dalle accuse, vere o presunte, che gli vengono mosse, sicché reagisce con furie improvvise e all’apparenza immotivate, perché lui stesso non è ben consapevole del movimento sotterraneo delle sue vergogne e delle sue paure.
Le furie hanno sempre la funzione di cancellare la vergogna che sta per abbattersi su di lui; ma in realtà ne aggravano il peso, perché lo fanno sentire ancora più indegno.
Note di psicoterapia
Quando parliamo di insicurezza nell’autostima, o persino di insicurezza ontologica (che per R. D. Laing1 è l’insicurezza circa la propria consistenza di essere umano stabilmente collocato nel mondo delle relazioni), dobbiamo affrontare anche il tema del narcisismo. In questi casi di solito si specifica che si sta parlando di un narcisismo carente o vulnerabile, o di un difetto narcisistico, cioè di un narcisismo perennemente minacciato di crollo per via delle profonde paure che lo scuotono.
Dev’essere chiaro, tuttavia, che nell’adoperare il termine “narcisismo” in questa accezione non si sta facendo riferimento al concetto elaborato da Freud, per il quale il narcisismo è un “amore di sé” assoluto derivato da una pulsione egocentrica innata; ma si fa piuttosto riferimento ai concetti di “autostima”, “autocompiacimento” e “fiducia di base” sviluppati, per esempio, da psicologi classici e psicoanalisti come William James, Alfred Adler, Willhelm Reich, Erich Fromm, John Bowlby, Heinz Kohut e Silvano Arieti e da filosofi e sociologi come René Girard e Christopher Lasch. Seguendo questa accezione del termine, la patologia consiste in un’autostima debilitata da fattori relazionali più o meno antichi e da fattori sociali, che il soggetto ansioso “rattoppa” malamente con la maschera del machismo, dell’aggressività, della violenza. D’altra parte occorre notare che la maschera è un costrutto alquanto fragile, è un falso Sè che la reazione rabbiosa sostiene per qualche minuto o al più per qualche ora, per poi lasciarlo cadere di nuovo, mostrando un volto più angosciato e insicuro di prima.
Per capire il disturbo occorre avvalersi di un pensiero dialettico, che di un fenomeno vede sia il lato manifesto che quello nascosto, sia il lato esteriore che quello interiore. Un’analisi psicologica dialettica rivela allora uno scenario inatteso: un uomo tanto aggressivo ed egoista nelle manifestazioni esteriori, quanto fragile e ossessionato dai propri doveri a un livello più intimo e nascosto.
In effetti, l’uomo aggressivo interagisce con la società e con la partner come ha fatto, in passato, con la madre e il padre freddi, apatici, depressi e abbandonici oppure crudeli ed esigenti; e come fa nel presente con l’intera società di appartenenza. Infatti, in una prima fase, egli si sottomette al gruppo sociale o alla compagna: ne percepisce con empatia le aspettative, più o meno normali, da lui amplificate a dismisura per via dei suoi complessi o del suo perfezionismo; quindi si sente costretto ad abnegarsi e a soddisfare le esigenze altrui, che gli appaiono smodate e spietate fino allo sfruttamento. Poi, in una seconda fase, egli scopre che la sottomissione e lo sfruttamento (imposti o autoimposti) lo fanno sentire debole, dipendente e incompiuto, alimentando un crescente rancore, di cui non sa darsi una spiegazione razionale.
In questi casi, la psicoterapia dovrà analizzare ed aggredire le strutture più antiche della memoria affettiva e sociale, nelle quali è depositata una storia traumatica di negazione e abbandono, o di sfruttamento e umiliazione; situazioni peraltro molto difficili da ammettere, quindi da ricordare, sia perché coinvolgono persone un tempo amate, sia perché l’ammissione implica la coscienza della propria vulnerabilità, che è proprio ciò che si vuole nascondere 2.
Oltre a ciò la psicoterapia dovrà individuare e demistificare le ideologie sociali che fanno di quest’uomo una persona tormentata dalla prestazione, quindi ansiosa, ossessiva, insicura e con un basso di livello di autostima3.
La Psicologia dialettica – disciplina che include nelle sue analisi individuali un’accurata valutazione della storia sociale – è particolarmente sensibile a questo livello dell’esperienza psicologica. I fattori ideologici personali possono infatti costituire una forza traumatica pari o anche superiore a quella interiorizzata nelle relazioni primarie. Ho coniato il concetto di trauma autogeno per significare quanto l’interpretazione soggettiva degli eventi possa essere devastante, quindi traumatica, per l’individuo insicuro. Quindi, a mio avviso, non si può fare una buona ed efficace psicoterapia senza far riferimento a valori personali, codici culturali, sistemi sociali, micro e macro-storia collettiva.
Consapevolezza critica e orgoglio d’essere se stessi
Infine, vorrei notare che nel mio approccio terapeutico una completa risoluzione del sintomo non dipende soltanto dal recupero di una sana e armoniosa capacità di relazione affettiva (cosa consigliata, con opportuna saggezza, da tutti gli approcci psicologici), ma anche dalla conquista di almeno due fondamentali sentimenti: l’accettazione filosofica, che è uno stato mentale che nasce da una calma consapevolezza critica, e un altrettanto sano e armonioso orgoglio d’essere se stessi. Si tratta di due concetti piuttosto trascurati dalla tradizione psicoterapeutica corrente, sopratutto nelle sue correnti più tecnicistiche.
L’accettazione filosofica implica innanzitutto una piena consapevolezza dei nostri limiti umani e che alcuni nostri sentimenti, come la rabbia da ingiustizia, possono fare riferimento a un mondo possibile, ma non probabile, dato lo stato storico delle cose del mondo. Questi sentimenti possiedono di fatto un elevato potenziale disadattivo, quindi vanno proiettati sullo sfondo della conoscenza e dell’assunzione di responsabilità sul proprio essere finito e delimitato.
Quello di orgoglio è un concetto quasi del tutto rimosso dalla prassi terapeutica ordinaria, in specie quella psicoanalitica di matrice freudiana e kleiniana. Ma l’orgoglio non è il narcisismo: un termine non può sostituire l’altro. Per quanto si possa parlare, con una certa confusa approssimazione, di “narcisismo sano”, il concetto di narcisismo contiene sempre un’implicita sfumatura negativa, anche morale, quello di orgoglio no.
L’orgoglio è il piacere di essere se stessi e di stare con se stessi come col miglior amico e, allo stesso tempo, di porsi di fronte alla propria personalità con la piena disponibilità riflessiva a conoscersi, stimarsi, rimodellarsi. Quindi, in psicoterapia, se da un lato gli effetti distruttivi degli attacchi di rabbia vengono superati grazie alla riconquista della capacità di relazione affettiva, dall’altro la tendenza a dotarsi di un carattere forte – implicita in ogni manifestazione di aggressività – può essere mitigata e riassorbita nello sviluppo di un orgoglio maturo. L’una cosa non esclude l’altra.
In una buona psicoterapia occorre saper bilanciare il bisogno di integrazione sociale, quindi in questo caso l’accettazione filosofica, col bisogno di individuazione, che in questo caso si esprime come orgoglio. L’accettazione filosofica è una forma di conoscenza che implica compassione per sé e per gli altri, quindi un’intima integrazione sociale, sia con se stessi in quanto esseri umani che fra le creature, ma anche un certo sereno distacco. La consapevolezza orgogliosa di sé è parte coerente di quel processo di individuazione di cui la psicoanalisi freudiana e kleiniana – ossessionata dall’inconscio come forza negativa, quindi da concetti negativi come “narcisismo” e “pulsione di morte” – non riesce a darsi conto. Di fatto, una piena capacità di relazione affettiva non può esistere in assenza di un intimo e saldo piacere di essere se stessi.
Le teorie psicologiche che non adottano un modello dialettico tendono a privilegiare sempre un aspetto piuttosto che l’altro. Nel caso in cui vengano privilegiati i bisogni di relazione e integrazione sociale, non viene preso in considerazione il Sé come opera esistenziale e centro dell’individuazione; nel caso in cui si dia un’enfasi particolare alla liberazione dell’Io e all’affermazione di sé, non viene presa in considerazione la funzione equilibratrice dell’intimità sociale e affettiva.
Se non si adopera un modello dialettico si finisce sempre per eccedere in un senso o nell’altro. Per questo motivo la mia proposta teorica poggia, nella sua architettura essenziale, sul pensiero dialettico, che consente di osservare nella psiche umana la fluttuazione e l’alternanza degli opposti.
- Laing R. D. (1959), L’Io diviso, Einaudi, Torino, 1969.
- In questo senso sono attenti e precisi (e quindi da consultare) gli studi di John Bowlby, Donald Winnicott, Alice Miller e in genere della psicoanalisi relazionale e intersoggettiva.
- Consiglio a questo proposito la lettura di quattro miei libri: Volersi male (FrancoAngeli, 2002), dove analizzo la nevrosi del dovere; La paura di amare (FrancoAngeli, 2012) in cui descrivo la personalità impaurita e difesa nei confronti dei normali sentimenti di relazione; L’ombra di Narciso (FrancoAngeli 2017), nel quale descrivo in che modo la ferita narcisistica all’autostima personale alimenti vissuti di umiliazione e reazioni aggressive; e infine Relazioni crudeli (FrancoAngeli 2019) nel quale descrivo la personalità narcisistica aggressiva e le collusioni con persone affette da masochismo morale.