Derealizzazione, dissociazione e rimozione del conflitto

Sintomi primari e sintomi secondari

fotografi-ispirazione-rene-magritte-fotografia-arte-4La domanda più importante che possiamo farci circa la genesi delle sindromi di derealizzazione e depersonalizzazione è quale sia stato il primo esordio – il momento storico esatto – della sintomatologia; cioè quando per la prima volta ci si è sentiti in un sogno piuttosto che nella realtà. 

Non sempre la sindrome da derealizzazione è stata anticipata da più comuni crisi d’ansia o dagli altrettanto frequenti attacchi di panico, e non sempre si associa a vissuti depressivi. Talvolta nella vita del paziente si è manifestato un piccolo corteo di crisi d’ansia e attacchi di panico, talaltra no, c’è stata solo una lieve fobia sociale, nella quale si temevano gli altri come potenziali aggressori; oppure dubbi e ruminazioni ossessive sul senso della vita. Qualche volta tutto sembrava filare liscio, tranne una certa sensazione di piattezza emotiva o un dubbio, una perplessità circa un maltrattamento subito e una lieve sensazione di amnesia. Poi, d’un tratto, è apparsa la “soluzione”, la realtà stessa si è rivelata come un’illusione: irreale, paradossale, estranea, grottesca, finta, morta. 

Appena il sintomo di derealizzazione compare, di solito comincia a espandersi a spese degli altri sintomi, come se avesse uno straordinario potere di persuasione. Spesso, ai margini, restano attive ansie ipocondriache e si ha paura di morire o di impazzire; oppure si hanno idee ossessive, e allora si ritorna col pensiero a un certo episodio e si dubita di aver fatto cose inopportune o indecenti senza averne memoria e consapevolezza; talvolta si avvertono momenti di puro panico; infine altre volte il sintomo di DP-DR si alterna con la depressione esistenziale, che implica ruminazione sul senso della vita e la certezza che nulla in fondo abbia senso e che tutto sia perfettamente inutile. Quasi sempre, se il sintomo perdura costante, gli si sovrappone una depressione reattiva, un sentimento devastante di condanna, dovuta non tanto a pensieri di futilità esistenziale, quanto piuttosto all’idea che da quella prigione d’incubo non si uscirà mai.  

Quindi il più delle volte la sindrome di DP-DR è accompagnata da tutto un corteo di sintomi, il più insidioso dei quali è la depressione grave; ma la derealizzazione e la depersonalizzazione restano il sintomo primario e non perdono mai la loro posizione dominante. Tutto il resto è derivato e secondario.  

Questi, dunque, sono i sintomi. Come Pan con il suo corteo di baccanti, la sindrome di DP-DR procede con un suo corteo di sintomi. I quali però non devono confondere le idee né del paziente né del tecnico. Ripeto allora la domanda iniziale: in quale momento il sintomo di DP-DR è apparso per la prima volta? E aggiungo: perché la mente ha scelto questa singolare soluzione, perché ha deciso di rifugiarsi in un’irrealtà che il più delle volte è di tanto peggiore di qualsiasi realtà vissuta fino a quel momento? 

Ebbene, la causa primaria di questa sindrome è di natura psicologica, anche se gli effetti sono anche – inevitabilmente – biochimici. Data la sua natura psicologica, l’esordio della sintomatologia deve presentare una complessa progressione di fasi inconsce (o semi-consce), di cui il sintomo percepito è solo la punta dell’iceberg. Poiché la mente non coincide con l’organo cerebrale e non è mai isolata dal contesto reale, l’esordio di un sintomo deve a sua volta coincidere con un certo tipo di relazione con la realtà. 

La dissociazione mente/corpo


Se ci porremo questa domanda – quando il sintomo è apparso la prima volta? – ci accorgeremo che esso è sorto in occasione di un conflitto da cui sono state dissociate le cariche emotive. 

Il parametro più  prossimo per capire questo tipo di dinamica è la dissociazione che avviene a causa di una trauma. Pressoché tutti gli psicologi che si sono occupati delle difese dalla violenza (per esempio abusi sessuali, sequestro e rapimento, detenzione in prigione o in campi di prigionia) concordano su un punto: la difesa più frequente dagli episodi di coercizione e violenza è la dissociazione mente/corpo, una difesa che permette alla vittima di avvertire l’evento aggressivo come se accadesse a qualcun altro. Il corpo è percepito come separato dalla mente, e la mente diviene un’entità disincarnata e a se stante che osserva la scena della violenza come in un film. 

Da Sàndor Ferenczi ad Anna Freud, da Bruno Bettelheim a Philip Bromberg, l’accordo su questo punto è totale. Prima non c’era alcuna psicosi né tendenza psicotica; poi, da un momento all’altro, il soggetto produce una dissociazione, un sintomo che alcuni manuali di psichiatria (sbagliando in modo grossolano) classificano come di tipo schizoide, borderline e persino schizofrenico. Il fatto che si tratti di una dinamica difensiva poco in uso nel mondo occidentale non autorizza a evocare scenari di estrema gravità. 

In tal senso, invocare la psicosi come scenario elettivo è fuori luogo; la dissociazione mente/corpo è una facoltà della mente che chiunque sia stato in una situazione di grave pericolo, o anche solo di elevato stress, conosce. Chiunque abbia affrontato un grave incidente o sia stato salvato da un annegamento o da un rapimento durato settimane o mesi o sia uscito da un luogo di detenzione o da un campo di prigionia ne ha una memoria molto chiara: dopo una possibile reazione di panico (che tuttavia può anche non esserci), l’Io si scinde, si divide in due, e il corpo viene “abbandonato a se stesso”, mentre la mente si allontana e la scena in atto sembra scorrere al di fuori del tempo e dello spazio reali. 

Avviene quello che in termini tecnici si chiama detachment, cioè distacco. La mente si distacca dal corpo e l’effetto è di un distacco generale dell’Io dalla situazione in atto. 

Un episodio personale


nuotatoreQuesto fenomeno l’ho riscontrato più o meno in tutti i pazienti affetti da derealizzazione e depersonalizzazione. Ma non accade solo a loro. Accade anche ai pazienti che vivono un improvviso e intenso trauma da sintomatologia acuta. Per esempio, un paziente ossessivo assalito da fantasie intrusive può estraniare e scindere dalla coscienza le impulsioni ossessive, operando quindi di fatto una dissociazione analoga a quella fra mente e corpo, cioè fra controllabile e incontrollabile, volontario e involontario. La dissociazione è dunque una difesa ricorrente da un episodio drammatico, sia esso oggettivo o soggettivo. 

Vorrei raccontare un episodio dissociativo personale. Avevo 16 anni ed ero in visita presso i miei parenti di Livorno. Era estate e come era consueto ero andato al mare con mio zio e le mie cugine. Era una splendida giornata e la superfice chiara e pulita fino all’orizzonte invitava al bagno. Presi confidenza subito con l’acqua e benché avessi appena terminato di mangiare, mi allontanai di molte centinaia di metri dalla riva. Ero un nuotatore agonistico allenato e di bagni dopo pranzo o dopo cena ne avevo fatti infiniti e in acque molto più movimentate. Dunque, scivolai sulla superficie azzurra del mare con la solita fiducia. Quella volta però accadde l’imprevisto. Ebbi una congestione e mi risvegliai sul basso muricciolo di un fabbricato a ridosso del lido, assistito da mio zio e da alcuni sconosciuti. Seppi poi che ero vivo per miracolo. Dopo alcuni minuti di nuoto, mi ero trovato a una distanza tale dalla spiaggia che nessuno, se anche mi avesse visto, avrebbe potuto soccorrermi. Fortuna aveva voluto che nei dintorni si aggirasse una barca di pescatori dilettanti, i quali mi videro scivolare di colpo giù. Furono loro a tuffarsi in acqua, a prendermi fra le braccia e a salvarmi. 

Dell’episodio della congestione, del malessere e del trascinamento nell’abisso marino non ricordavo assolutamente nulla. Un’amnesia retrospettiva me lo impediva. Ma nella mia condizione mentale di sopravvissuto (o di resuscitato…) c’era qualcosa di ancor più sorprendente. Ebbene, mentre ero disteso su quel basso muricciolo in pietra e cemento, mentre un bagnino mi approntava il soccorso e mio zio era in preda all’agitazione, ascoltavo da uno sconosciuto soccorritore il racconto dell’accaduto. Ascoltavo parola per parola, percepivo tutto immerso in una sorta di lucida ipercoscienza, eppure, nonostante la cosa riguardasse proprio me, io ero totalmente indifferente. Non ero derealizzato (in senso proprio), ma non provavo alcun interesse alle condizioni del mio corpo, se stessi bene o male, e parole come “disgrazia”, “annegamento”, “morte” non mi suscitavano alcuna emozione. Non ero né stordito né confuso e non ero nemmeno sprezzante del pericolo, non provavo né paura né imbarazzo né dispiacere. Ero semplicemente “distaccato”, come se la cosa, pur riguardando me, non avesse alcun rilievo, perché il “me” in questione mi era indifferente come una nuvola di passaggio sullo splendido azzurro del cielo o un film seguito pigramente su un immenso schermo cinematografico. 

Oggi propendo a interpretare l’episodio come una delle possibili reazioni ad uno shock emotivo. In effetti, la reazione post-traumatica da stress non ha sempre le stesse caratteristiche: ossia, il ricordo ossessivo dell’episodio, la disorganizzazione emotiva, l’ansia, il panico, le rabbie esplosive e la depressione; altrettante volte, infatti, il trauma è accompagnato da una reazione di completo distacco che può facilmente passare inosservata: coscienza lucida, apatia, estraniazione, disinteresse. 

Quindi, la reazione al trauma, anziché somatizzarsi e divenire panico, anziché caricarsi di emozioni e divenire angoscia o dolore morale, produce un distacco emotivo e una dissociazione della mente dal corpo, che ha come conseguenza una sorta di invulnerabilità psichica. Infatti, nonostante il grave incidente, non provai alcuna paura, il giorno dopo, a riprendere il mio consueto rapporto col mare e non ebbi mai ricordi improvvisi e spaventevoli dell’episodio o incubi che in qualche modo lo riguardassero. Ancora oggi la mia coscienza è totalmente serena. 

Ebbene, la mia ipotesi circa la derealizzazione e la depersonalizzazione è che un trauma derivato da un conflitto psicologico inconscio possa sfociare in una dissociazione dell’Io dalla realtà, che viene così svuotata di emotività, sentimento, senso di esistenza (depersonalizzazione), e della mente dal corpo, che viene percepito come una “cosa qualunque” situata nel mondo, un oggetto estraneo, remoto, meccanico, disanimato (depersonalizzazione). 

Nel mio caso, quello di un rischio di annegamento, il distacco emotivo mi protesse dalle emozioni del momento: la paura dell’incidente, la vergogna per la mia imprudenza e il senso di colpa verso i miei parenti per averli fatti preoccupare. Come potevo giustificare ai miei stessi occhi l’ingenuità che mi aveva fatto apparire a tutti come un pivello del mare? E come giustificare di fronte a me stesso la responsabilità di aver turbato i miei amatissimi parenti? E la colpa per il dolore che avrei inferto ai miei genitori se fossi morto? Sarebbero state tutte emozioni forti, troppo forti, che avrebbero destabilizzato il mio Io; quindi vennero contenute e infine dissociate mediante il “distacco”. Il distacco emotivo poteva essere un punto di passaggio per giungere a un livello difensivo ulteriore: la dissociazione della mente dal corpo e da questa a sensazioni crescenti di estraneità, insensatezza, anormalità, perdita di una “logica” generale del mondo e del senso della vita.

La comparsa di un sintomo e l’aggravamento di una sindrome psicopatologica dipendono essenzialmente da una dinamica incrementale, per la quale all’aumento di un conflitto intrapsichico coincide l’aumento parallelo di una difesa correttiva. Quindi, un distacco emotivo può evolvere in una più radicale dissociazione e la dissociazione a sua volta può evolvere in una depersonalizzazione o derealizzazione strutturate.    

Sulla base di questa ipotesi, suppongo che i sintomi da derealizzazione trovino la loro prima origine in una mente predisposta a disattivare il panico e la colpa e la conseguente destabilizzazione dell’Io grazie ad una sorta di atarassia emotiva, di anestesia, che non sempre cancella la paura ma sempre preserva l’Io da un crollo nella disorganizzazione.

Trauma e rimozione del conflitto

Uomo-bombett-acieloLa depersonalizzazione e la derealizzazione sono un ulteriore passo in avanti in questa dinamica difensiva nella quale l’Io si protegge dalla forza traumatica delle emozioni: vergogna, rabbia, colpa, depressione, soprattutto quando sono in gioco relazioni fondamentali. 

Lo strutturarsi dei sintomi, caratterizzati dal percepire il mondo o il proprio corpo come dietro una lente deformante che li rende insensibili e irreali, è spesso anticipato da una fase prodromica caratterizzata da ansia, idee ossessive, attacchi di panico. Poi, quasi a “risolvere” l’ansia e il panico, interviene la dissociazione, quindi la derealizzazione, e la mente viene trasportata in un “mondo alternativo”, vago, irreale, multiplo, inafferrabile, talvolta caratterizzato da un senso di grottesco o di orrido, in cui nulla ha senso e, soprattutto, gli elementi della realtà sono privi di nessi causali esplicativi. 

La riprova della mia tesi che i sintomi di distacco e derealizzazione insorgano a difesa dell’Io da emozioni traumatiche è data, appunto, dal disturbo post-traumatico da stress. Il fatto che la dissociazione mente/corpo si attivi tanto facilmente durante un’esperienza violenta sta a indicare che è una difesa dal trauma in atto o, per meglio dire, una difesa dalla propria reazione attiva alla violenza subita passivamente.

Qual è la caratteristica fondamentale di un trauma? La riduzione all’impotenza sia fisica che mentale: la persona che subisce un trauma fisico e psichico sa di non potere reagire perché se reagisse metterebbe a rischio o la sua vita o l’integrazione dell’Io (che per la psiche è la stessa cosa). Nei campi di concentramento come nel caso di una violenza sessuale o di un rapimento cosa accade del proprio impulso a reagire? Viene rimosso, perché se posto in essere metterebbe a rischio la vita o l’integrità della vittima. 

Le prime intuizioni di questa dinamica sono presenti negli scritti maturi di Sàndor Ferenczi, dedicati all’abuso fisico o di personalità. Tutti gli autori che hanno avuto esperienze di internamento le hanno in seguito confermate, da Viktor Frankl a Bruno Bettelheim. Se un prigioniero, un abusato o rapito reagissero con rabbia al loro rapitore potrebbero ricavarne solo ulteriori violenze fisiche o la morte. Se un traumatizzato ripercorresse con la mente gli eventi del trauma ne ricaverebbe solo altra vergogna e altra colpa, se il responsabile è lui; o altro rabbia e altro odio, se il responsabile è qualcun altro, quindi ulteriore senso di minaccia o di colpa e conseguente destabilizzazione dell’Io. Giunta a questa intuizione elementare, la mente si dissocia dal corpo e la coscienza dalle emozioni. Il corpo è la vittima, mentre la mente è un osservatore esterno disincarnato, che non prova dolore e allo stesso tempo non mette a rischio il corpo con una reazione inconsulta. Mentre non ha alcun potere di reagire ha però il potere di rimuovere la reazione quindi di evitare ulteriori rischi. 

Si tratta di un esempio estremo, inadatto a spiegare la derealizzazione e la depersonalizzazione? Secondo me no. La dinamica di fondo è la stessa. Immaginiamo un bambino che si sente minacciato da un’esperienza relazionale traumatica, per esempio una serie protratta di violenti litigi fra i genitori. Anche lui in quei momenti è sotto sequestro: non può fuggire né arrabbiarsi, è troppo piccolo per entrambe le cose. E allora cosa può fare? Può entrare in ansia e piangere, chiedendo implicitamente aiuto, ma col rischio di essere rimproverato; oppure può attivare una difesa solitaria da distacco emotivo: si isola, si rende assente, “scompare” dalla scena, non dà fastidio a nessuno. È il primo passo verso la dissociazione emotiva. 

Ora, immaginiamo un ragazzo che scopre la crudeltà dei suoi coetanei, di cui pure desidera la compagnia. Anche lui è prigioniero dell’obbligo morale di socializzare, anche lui è sotto sequestro. Che cosa può fare? Prima soluzione: può mimetizzarsi e fingere di essere “come loro”. Il prezzo di questa soluzione è di interiorizzare e aggravare lo stato interiore di conflitto e il senso di inadeguatezza. Seconda soluzione: può attivare delle reazioni di ribellione, brontolare e litigare. Il prezzo di questa soluzione è di perdere il gruppo e forse anche di sentirsi cattivo. Terza soluzione: può sentirsi strano, distaccato, estraneo e cominciare a chiedersi che senso abbia mai la vita. Con questa terza soluzione egli conserva il legame e non entra in conflitto con se stesso. Il prezzo pagato è di dubitare della sensatezza  della realtà. Una soluzione economica, che però può essere il primo passo verso la derealizzazione e la depersonalizzazione. 

Sia nel caso del bambino che in quello del ragazzo, la paura e la rabbia per l’esperienza traumatica in atto (il conflitto fra i genitori o l’angoscia per il proprio conflitto col gruppo) vengono dissociate: il soggetto ha valutato che, originando dal suo conflitto con l’ambiente, le emozioni della paura e della rabbia gli farebbero più male che bene. Di fatto egli ha rimosso il conflitto, per il danno che il suo Io potrebbe riceverne. 

La mia ipotesi può essere confortata da un’osservazione empirica. Il derealizzato tipico è di solito una persona molto sensibile e molto emotiva, la quale però predilige riconoscersi nell’intelletto, peraltro spesso molto sviluppato. Dunque, egli ha una forte attitudine al pensiero, che usa in modo difensivo rispetto alle emozioni, soprattutto all’aggressività. 

Una storia clinica

Ricordo un mio vecchio paziente, Claudio, di cui ho raccontato la storia nel libro La logica dell’ansia. Claudio aveva coltivato sin da bambino la passione per il design di automobili. Aveva tutte le qualità per riuscire e non aveva mai nascosto ai genitori il suo sogno. Aveva portato avanti gli studi superiori in modo egregio e si attendeva l’agognato regalo: l’iscrizione alla scuola di design di Torino. I genitori avevano due ottimi stipendi e lui era figlio unico. 

Purtroppo, il padre era un uomo di carattere modesto che, pur non avendone bisogno, si era sempre sacrificato e la madre andava più dietro la sua famiglia originaria di quanto non si occupasse del figlio. In più la scuola di design aveva un costo elevato. C’era però un’altra circostanza sfavorevole: i genitori stavano spendendo una montagna di soldi per ristrutturare una grande casa di campagna appena acquistata vicino a quella dei parenti della madre. La cifra eccedeva lo scopo voluttuario iniziale, sicché i genitori vagheggiavano di andarci a vivere appena in pensione. Il giorno che Claudio chiese al padre il permesso di iscriversi alla scuola di Torino, quello, con un sospiro, gli disse: «Non abbiamo abbastanza soldi». La sera Claudio ebbe un attacco di panico ipocondriaco contrassegnato da fitte al petto e una drammatica “fame d’aria”. 

Di lì a poco il padre, pensando di far bene, gli trovò un posto come rappresentante di auto in un salone del quartiere. Claudio accettò, ma subì un trauma incancellabile. Sin dal primo giorno di lavoro si sentì “morto dentro”: si sentì l’agnello sacrificale. Il giorno successivo all’ingaggio lavorativo ebbe la sua prima crisi di derealizzazione. Si muoveva nel salone di vendita in modo educato ed efficiente, con ogni gesto al posto giusto, ma la realtà era ovattata, confusa, i volti delle persone rimpiccioliti e remoti, le voci come un’eco proveniente da un fondo marino. Cos’era successo? Claudio aveva sentito il peso del tradimento da parte dei suoi e l’umiliazione di fronte a se stesso. Il trauma aveva prodotto una rabbia e un odio abissali, mai provati prima: e queste emozioni, che avrebbero potuto danneggiare o disgregare del tutto l’ideale dell’Io da “figlio d’oro” beneducato e controllato, erano state dissociate dalla coscienza attraverso la dissociazione della funzione percettiva da quella emotiva. 

Il lavoro di psicoanalisi fu lungo e la derealizzazione scomparve solo quando cadde l’idealizzazione del padre, cioè quando Claudio lo vide nella sua piccolezza umana, e della madre, di cui constatò un certo egoismo. A quel punto, le sue emozioni tornarono libere di “contagiare” il suo Io. In effetti l’aggressività verso i genitori fu minima, ma il sentimento di verità illuminò la sua coscienza. Alla fine – senza odio per i genitori – riuscì a cambiare lavoro e a cambiare vita. E anche se non coronò il suo sogno da designer, guarì. E questo fu l’essenziale. 

Lo smontaggio degli ideali dell’Io alienati, alla cui base è un rigido Super-io, e il contatto col nucleo del Sè emozionale costituisco i principi di base della psicoterapia dialettica di questo disturbo. 

Percorso bibliografico:

Libri dell’autore: 

Ghezzani N., La vita è un sogno, FrancoAngeli, Milano, 2018. 

Ghezzani N., Ricordati di rinascere, FrancoAngeli, Milano, 2014. 

Ghezzani N., La logica dell’ansia, FrancoAngeli, Milano, 2008. 

Ghezzani N., Uscire dal panico, FrancoAngeli, Milano, 2002.

 

Altri libri specialistici: 

Ferenczi S., Diario clinico, Raffaello Cortina, Milano, 1988. 

Frankl V. (1948), L’uomo in cerca di senso. Uno psicologo nei lager, FrancoAngeli, Milano, 2017. 

Bettelheim B. (1960), Il cuore vigile. Autonomia individuale e società di massa, Adelphi, Milano, 1988.  

Bromberg P. (2011), L’ombra dello Tsunami, Raffaello Cortina, Milano, 2011. 

Nicola Ghezzani

Psicologo clinico, psicoterapeuta

formatore alla psicoterapia

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