Derealizzazione: il primo contatto. Testimonianza e commento

Il primo contatto

La prima seduta con un nuovo paziente è, spesso, talmente ricca di dati e di significati che non basterebbe un libro intero per esaurirne l’analisi. Per quello che è il mio stile clinico, essa costituisce una messe ricchissima di informazioni, sulle quali impostare la futura psicoterapia.

Nel contesto di un sito, è impossibile riportarla in modo integrale. Posso però fare una cosa più semplice. Analizzare una singola mail di primo contatto. 

Chi mi scrive è Valentina, una ragazza colpita da crisi di derealizzazione, che vuole avere un orientamento da parte di uno specialista del suo disturbo. 

Ho diviso lo scritto fra brani della mail, descrittivi della situazione, e i pensieri analitici che mi venivano in mente, il cui fine era di avviare la conoscenza della persona e la sua presa in carico psicoterapeutica.  

La mail e i miei commenti

Valentina: 

Salve dottore,

Un paio di mesi fa sono capitata sul suo sito facendo delle ricerche, ho letto i suoi articoli sulla derealizzazione, che sono stati per me una rivelazione. Ho letto molti articoli negli ultimi mesi su questa cosa, ma nessuna spiegazione è stata in grado di darmi le risposte che cercavo, la sua sì. Quindi ho acquistato il suo libro sulla derealizzazione, La vita è un sogno, è l’ho letto in pochi giorni, tanto mi ha appassionato. In particolare mi sono rivista moltissimo nella storia del suo paziente Claudio.

Vorrei raccontarle la mia esperienza. 

Mi chiamo Valentina, ho 20 anni e sono una studentessa di Giurisprudenza. 

Il mio primo episodio di derealizzazione l’ho avuto in terza liceo, ricordo che stavo tornando a casa in macchina con tutta la famiglia ed era sera. Ad un tratto ho avvertito il mondo che si allontanava da me e ho avuto un attacco di panico. 

Commento: l’inclusione forzata. 

Spesso, una delle circostanze più favorevoli per lo sviluppo di una sintomatologia ansiosa o dissociativa è l’inclusione indesiderata in un gruppo. È dunque molto frequente che un sintomo si manifesti quando si è “costretti” a stare in famiglia. 

Il contatto inclusivo, avvertito come obbligato, genera un conflitto che resta inconscio, ma al suo posto appare il sintomo. Per esempio, non si vuole essere lì, ma ci si sente moralmente obbligati; allora il conflitto viene rimosso e al suo posto appare un sintomo dissociativo. 

Valentina dice: «Ho avvertito il mondo che si allontanava da me». Il distacco dereistico1 viene spesso indotto dalla paura, dall’ansia, di essere cosciente del conflitto. 

Sulla stessa base difensiva avrebbe potuto verificarsi qualunque altro sintomo, per esempio uno svenimento: la coscienza “viene meno”, cioè “sviene”, proprio allo scopo di interrompere il pensiero, nel quale sta per affiorare il conflitto inconscio. 

Valentina: 

Da lì è stato un inferno: per nove mesi ho sofferto di ansia, derealizzazione, attacchi di panico e tachicardia (sono tachicardica dalla nascita, ma ovviamente il disturbo è peggiorato). I miei genitori, stanchi di vedermi così, mi hanno portata da una psicologa che non mi ha mai spiegato cosa avevo, come si chiamava il mio disturbo, da cosa derivava o quant’altro, ma si limitava a chiedermi come passavo le giornate. Questa cosa mi ha turbata, la mia indole è quella di andare in fondo alle cose, capire il come e il perché e tutto quel mistero non mi faceva bene. 

Commento: il misconoscimento e l’errore diagnostico. 

Il misconoscimento è una delle esperienze più dolorose del derealizzato: spesso, lo psichiatra e lo psicoterapeuta non riescono a dare una spiegazione dei sintomi, perché appaiono loro come paradossali. Lo psichiatra o lo psicoterapeuta che si muovono per stereotipi li classificano come espressione di un disturbo post traumatico da stress, e spesso vanno all’inutile ricerca di un trauma, senza riuscire a trovarlo. Non di rado, quegli stessi sintomi vengono erroneamente classificati come indizi di una personalità borderline o addirittura psicotica, quindi di un disturbo mentale grave, forse inguaribile. 

Ma il paziente derealizzato è, al contrario, lucidissimo, intelligente, presente a se stesso. Egli non solo osserva con sgomento quanto accade alla sua percezione-sensazione, ma nota anche con angoscia il misconoscimento da parte delle persone intorno a lui. Quel misconoscimento comincia allora far parte della sua realtà alienata, andando a contribuire al suo sentimento di diversità. Una diagnosi sbagliata è dunque un fenomeno funesto, che aumenta l’angoscia di perdita di controllo su di sé e il sentimento di definitiva esclusione. 

Di fatto, la DP-DR è un disturbo di confine con l’ansia acuta, nel senso che risponde a un livello di ansia maggiore e la sostituisce. La sua modalità di azione psichica è la dissociazione (dissociazione ansiosa, non psicotica). Ma la fenomenologia, la dinamica, la genesi del sintomo sono perlopiù sconosciuti o male intesi dai professionisti del settore, perché gravati di pregiudizi e perché il sintomo resiste sia all’interpretazione che alla terapia farmacologica. 

Valentina: 

Smisi la terapia e ricominciai ad uscire e vivere una vita quanto più normale. In quinta liceo purtroppo è venuta a mancare in un incidente una mia compagna di classe alla quale ero molto legata. Dopo un giorno o due di pianto mi sono improvvisamente rialzata e ho aiutato i miei compagni di classe. Improvvisamente la mia vita è migliorata e a un mese dall’accaduto ero felice, in sintonia con la natura, e mi esprimevo liberamente. 

A cinque mesi dal lutto, quindi nell’aprile 2014, mi fidanzai per la prima volta. Per la prima volta infatti riuscivo a relazionarmi liberamente con un maschio, senza paura che lui mi umiliasse, mi comandasse o mi distruggesse la vita. 

Tornata dalla vacanza con la mia famiglia, le cose con lui peggiorarono, ma essendo una ragazza determinata non volevo accettare che la mia unica storia andasse a rotoli, così continuai la relazione fino a qualche settimana fa, quando purtroppo gli episodi di derealizzazione ripresero con molta forza (solo di sera o quando sono distante dalla mia famiglia e continuano tutt’ora) fino a spingermi a chiudere il rapporto. 

Molte cose non mi erano chiare fino a ieri sera (la mia felicità dopo un lutto, la causa della fine del rapporto con il mio fidanzato, la rabbia che nutro verso i miei genitori), ma ora mi sembra di aver chiuso il cerchio.

Commento: sentimenti nuovi e vecchie costrizioni. 

Che si possa essere felici dopo un lutto suona come paradossale, ma per capire questo paradosso occorre mettersi in sintonia con un soggetto derealizzato. Da quando vive il suo disturbo, che lo ha dissociato da emozioni spontanee, facendogli avvertire tutto come dubbioso o del tutto falso, il derealizzato non riesce più a connettersi con le sue emozioni naturali. Allora, persino un lutto può ricordargli un affetto reale e che tutto, ogni vicenda umana, ha un corso spontaneo e una sua fine. Quindi anche un’emozione potenzialmente traumatica come quella di un lutto può essere vissuta con una strana gioia o una non meno strana serenità. Il tempo non è una gabbia da cui non si può fuggire, e le esistenze hanno un corso e un significato.

Questo è quanto ha provato Valentina al momento della morte della sua amica. 

Poi però ha commesso un vecchio errore: si è costretta a fare coppia con un ragazzo di cui non era convinta, quindi in fondo un ragazzo non amato. Da qui è scivolata nello stesso conflitto morale che aveva vissuto con la famiglia: «Ha senso che io stia qui con questa persona?». Il conflitto è stato colpito dal senso di colpa e sostituito dai sintomi. 

Valentina: 

Ho riflettuto molto sul fatto che sono arrabbiata con la mia famiglia. Credo che la chiave di tutto sia  proprio la mia famiglia. I miei genitori si detestano, ma al contrario dei genitori di Claudio (il suo paziente) non se lo dicono in faccia e sfogano i loro problemi su noi figli. Quando sto sola con mia madre, lei si lamenta in continuazione di mio padre, ne evidenza solo i lati peggiori e mi elenca tutto il male che le ha procurato e che le sta tutt’ora procurando. Continua a ripetermi che gli uomini sono tutti uguali. Sicché anche io col tempo ho maturato un odio verso gli uomini.

Questo accade anche quando sono da sola con mio padre il quale non perde occasione per dire che mia madre è un’artista, è disordinata, è pazza, è depressa (tutte scuse per giustificare il fatto che lui non la ascolta quando lei gli parla dei problemi del loro rapporto).

Commento: l’abuso relazionale.  

Una delle cause di maggior conflitto interiore, nel soggetto sensibile che sviluppa un sintomo dissociativo, è l’abuso emotivo da parte dei genitori. L’eccessiva disponibilità, fa di Valentina una figlia passiva nei confronti delle intrusioni emotive dei genitori.  

Valentina: 

Con mia madre ho sempre mostrato il mio lato più sentimentale, mentre con mio padre ho sempre mostrato il mio lato più razionale e rigido, ma non appena mescolo le mie due parti mi sento rispondere dall’uno o dall’altra “sei uguale a tua mamma/a tuo papà”. 

Così cerco sempre di accontentare tutti e due (ovviamente con scarsi risultati quando siamo tutti insieme) e ogni volta che “sbaglio” ho paura che i miei litighino a causa mia. Sento la responsabilità della felicità della famiglia sulle mie spalle e così non riesco ad esprimermi. Credo che la derealizzazione sia tornata proprio ora perché durante le vacanze di natale mio padre è rimasto a casa per sistemare con mia mamma gli scatoloni del trasloco e quindi le litigate erano all’ordine del giorno.

Vedendo i fatti in quest’ottica e individuando la causa del mio malessere nel rapporto malato che hanno i miei genitori, riesco anche a spiegarmi il mio periodo felice dopo la morte della mia amica. Infatti i miei genitori, probabilmente sapendo che avevo problemi più grandi dei loro da affrontare, avevano smesso di scaricare tutto su di me e io avevo così trovato la serenità. Ricordo anche che durante le vacanze erano tornati a comportarsi come al solito con me e questo spiega perché il rapporto con il mio fidanzato è andato disgregandosi.

Commento: le giuste intuizioni

Spesso i derealizzati hanno delle intuizioni più che valide circa le cause scatenati del loro malessere. Valentina è una ragazza intelligente, ce non pensa di essere affetta da una malattia biologica priva di cause psicologiche. Questa capacità di analisi va sempre valorizzata.  

Valentina: 

Vorrei davvero tornare felice come ero due anni fa, vorrei ancora sentirmi parte del mondo, amarmi e amare liberamente, ho tanta voglia di vivere. So che posso essere una ragazza splendida, con mille difetti, ma anche tanti pregi. Vorrei che i miei genitori mi amassero per quella che sono (sentimentale ma anche razionale). Vorrei che risolvessero i loro problemi, vorrei che avessero amici con cui parlare e non scaricassero tutto sui figli. Vorrei capire cosa posso fare, almeno per me stessa.

Commento: la subordinazione affettiva 

In quest’ultimo passaggio risulta chiaro uno dei temi che Valentina dovrà affrontare in psicoterapia: la subordinazione del suo diritto ad essere sana alla salute conseguita dalle figure di riferimento. Valentina non può essere felice se gli altri sono infelici. Qui torna a fare l’errore di subordinare l’individuazione alla dipendenza affettiva dai suoi. Il destino dei suoi dipende davvero da lei? 

Valentina: 

La ringrazio davvero tanto per i suoi articoli e i suoi libri: mi sono stati di grandissima utilità. Ci vuole una grande generosità per scrivere come fa lei. Ora che ho chiuso il cerchio mi sembra di poter stare meglio, di poter guarire. Capisco che dovrei esprimermi spontaneamente, che non dovrei sottovalutarmi e sminuirmi, anche se le mie reazioni fossero molto forti e non comprensibili agli altri.

Spero che lei possa leggere la mia mail e possa dirmi se sono sulla buona strada. Mi farebbe piacere avviare con lei una psicoterapia o anche solo una serie di consulenze. Abitiamo lontani, ma so che lavora su Skype, quindi potremmo vederci egualmente. 

I miei più cari saluti,

Valentina.

Conclusione

Quando una persona è già così avanti, come Valentina, nel processo di analisi della propria personalità, si può sperare che la psicoterapia consegua rapidamente effetti positivi. 

Innanzitutto, Valentina non cade nella trappola vittimista di credere di essere affetta da una patologia organica incurabile. Il verbo organicista semplifica la vita degli psichiatri (quanto meno di quelli più cinici, oppure più ignoranti), ma complica e peggiora la vita dei pazienti. Valentina è alla ricerca di una spiegazione che riguardi l’intreccio della sua maturazione neuropsicologica e delle vicende familiari. In secondo luogo, Valentina legge, si informa, chiede colloqui professionali. Ha capito che è dalla complessità della sua mente e dalla volontà di effettuare un percorso di conoscenza che nascerà la sua nuova identità, quella sana. 

Nessuna sintomatologia è per tutta la vita. Essa è solo il pungolo che la natura impone perché la mente liberi il suo potenziale di salute.      

Nicola Ghezzani

Psicologo clinico, psicoterapeuta

formatore alla psicoterapia

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  1. dereismo s. m. [dall’ingl. dereism, tratto dalla locuz. lat. de re, propr. «(lontano, astratto) dalla cosa, dal fatto reale»]. – In psichiatria, perdita del contatto con la realtà accompagnata da un modo di pensare che non segue le vie della logica, come condizione propria di personalità introversa e espressione caratteristica della derealizzazione.