Dipendenza affettiva e angoscia di morte
L’olocausto delle femmine
Il rapporto numerico fra maschi e femmine in una normale popolazione umana dovrebbe essere più o meno equilibrato, con una leggerissima prevalenza di maschi. Ma in molte società non è così: questo equilibrio veniva e viene tuttora alterato da una selezione intenzionale che sacrifica le femmine, a significare l’inutilità economica e l’inferiorità sociale della figlia femmina rispetto all’agognato figlio maschio. La sproporzione intenzionale fra maschi e femmine va sotto il nome di gap gender.
Un tempo la selezione pro-maschio si attuava con l’infanticidio: ossia col massacro di un numero spaventoso di neonate femmine. Oggi, in quegli stessi Paesi, si pratica su larga scala un mezzo meno visibile: l’aborto selettivo. Prima della nascita, quando è ancora in utero, il feto viene scrutato e soppresso se non soddisfa le esigenze dei genitori. Ci sono Paesi (come la Cina e l’India) che adottando l’aborto selettivo realizzano il saldo contabile di un 10, 15% di neonati maschi in più rispetto alle femmine. Un vero e proprio olocausto delle femmine.
In molte famiglie della nostra cultura, questo pregiudizio patrilineare e maschilista si presenta da sempre in una forma più sottile: il dispiacere per l’attesa di una figlia femmina e la sua destinazione, una volta nata, a una sistematica negligenza: il genitore la nota di meno, la trascura anche quando sembra privilegiarla e la pensa come naturalmente subordinata. È sfuggita all’aborto selettivo per andare incontro a un più sottile aborto psicologico. Vive, ma al prezzo di sentirsi inutile, minacciata, a contatto costante col suo fantasma insepolto di bambina sopravvissuta.
Ebbene, nelle società umane contrassegnate dal maschilismo, ogni donna adulta si porta dentro di sé la bambina morta che non è stata, ma che le è rimasta accanto come un’ombra, un fantasma, una bambola rotta. Questa donna è sopravvissuta, ma come se non lo meritasse. Nelle profondità del suo inconscio, nonostante la sua ribellione cosciente, ella si sente salvata per “grazia ricevuta”, non perché – semplicemente – avesse diritto a vivere.
Ma non è solo il suo fantasma a tormentarla, perché, senza saperlo, porta dentro di sé il sacrificio cruento della moltitudine infinita delle bambine mai nate, che urlano nella sua psiche. La sua angoscia può sembrare allora inesplicabile, soprattutto allo psichiatra e allo psicoterapeuta che si concentrano sulla mente individuale senza conoscere i fatti collettivi.
Perché per capire la sua angoscia occorre guardare molto più in là: nelle profondità abissali dello spazio geografico e del tempo storico dell’umanità.
La bambina morta
Da alcuni decenni la psicoterapia ha identificato il “trauma infantile” come causa principale dei disturbi psichici. Ma questa idea trascura un’evidenza: a parità di traumi alcuni ammalano, altri no. Nel caso della dipendenza affettiva questo è ancora più evidente.
Per quanti traumi una bambina possa aver ricevuto, può sempre crescere sana e con un sentimento sano dell’amore. Finché è in grado di percepire i maltrattamenti subiti come episodici e non come regolari e sistematici può salvarsi.
Il punto di non ritorno la bambina lo varca quando i traumi ripetuti integrano e trasmettono un codice educativo, cioè qualcosa che le si presenta come un sistema di regole morali. Di questo codice, che ho chiamato “codice servile”, ho parlato nei miei libri L’amore impossibile e Quando l’amore è una schiavitù. Il genitore che la tratta da bambina e da serva allo stesso tempo salda in lei l’idea che non sarà mai una persona adulta, matura e auto-responsabile, ma che resterà sempre una bambina insufficiente a se stessa e per di più schiava della volontà altrui; e sarà sempre così perché una donna non è nient’altro che questo: una bambina schiava della volontà di colui che le è preposto.
In questo caso, l’esperienza traumatica integra allora una vera e propria “necessità morale”. Sulla base di questa pressante educazione emotiva, nella mente conscia e/o inconscia della bambina e poi della donna si impone una sensazione pervasiva di mortificazione e di umiliazione, risolta in una sorta di atonica esistenza emotiva da bambola, o da morta: l’esistenza di una bambina che obbedisce a ciò che le viene richiesto nell’implicita speranza di essere amata, e quindi riportata in vita.
L’obbedienza all’uomo che questa bambina manifesterà in età adulta ha spesso un precursore in un rapporto di dipendenza devota e ambivalente nei confronti di almeno un genitore: la bambina mortificata e posta sotto ricatto affettivo funziona come “genitore” del genitore malato e tirannico, come una piccola infermiera. Può capitare anche che altrettante volte provi un’intensa rivalità timorosa e rabbiosa nei confronti della madre, che le si mostra come un modello irraggiungibile.
In entrambi i casi, nonostante un’apparente “saggezza” o “forza di carattere”, la bambina dipendente nasconde un sentimento di vuoto e di morte ansioso e incolmabile. Le favole in cui compare una fanciulla umiliata e buona in attesa di un amore, oppure una bella addormentata, rievocano quell’antico stato di profonda atonia e la speranza di una restituzione alla vita grazie alle attenzioni di un uomo idealizzato.
Questo processo di svuotamento dell’anima e di attesa di un pieno che può giungere solo dall’esterno riguarda tanto la bambina educata all’umiltà, quanto quella educata alla vanità: perché anche la vanità sottintende la necessità di essere ammirata, e quindi tenuta in vita, dallo sguardo e dal desiderio altrui.
Su queste basi si fonda la dipendenza affettiva, che potrà avere poi, nella vita adulta, diverse strutturazioni di tipo psicopatologico:
- l’infatuazione devota e umiliante;
- la relazione ansiosa e conflittuale;
- la depressione avida e disperata;
- la rivendicazione rabbiosa;
- la promiscuità sessuale maniacale;
- la perversione masochista.
Nel corso della psicoterapia occorre elaborare il senso di colpa che si affaccia ogni qual volta la dipendente osa pensare alla reciprocità, o quando si arrabbia per la sua condizione; ma anche moderare una furia da revenant (da fantasma tornato in vita) perché questa furia può alimentare il circuito chiuso della colpa e quindi della ripetizione infinita. La liberazione avviene in una maturazione che trascende gli opposti della colpa e della vendetta e dà vita al diritto di nutrirsi di una piena reciprocità e di godere del proprio intrinseco valore.
L’angoscia di morte
La donna che da bambina e da ragazza è stata educata in un regime di carenza e di maltrattamento nelle relazioni adulte tenderà a reagire secondo gli schemi acquisiti nell’infanzia e nell’adolescenza. La lunga lavorazione all’umiltà o alla vanità (che è una forma mascherata di umiltà, perché impone il bisogno dell’approvazione altrui) ha fatto di lei una donna dipendente, che ha la necessità vitale di essere asservita alla volontà e al desiderio di un partner esigente per sentirsi davvero viva. Una zona morta gravita dentro di lei, il fantasma larvale dell’amore desiderato e mai avuto, che può essere ora umile e devoto ora colmo di furia.
Come suggeriscono gli studi di Spitz, Winnicott e Bowlby, la deprivazione può generare tanto ansia da abbandono e ricerca di simbiosi, quanto rabbia, protesta e una caotica incontrollabilità. La donna dipendente può vivere relazioni affettive nelle quali attende per mesi e anni l’amorevole approvazione dell’amante insensibile, che non arriva mai, oppure può virare da un momento all’altro verso la rabbia più cieca. In entrambi i casi ella resta una schiava dell’antica manipolazione affettiva genitoriale, incapace di immaginarla libera e autonoma nei suoi desideri.
Ma ogni qual volta lei si è avvicinata all’angoscia di abbandono, un’angoscia terribile che la sveglia la notte e la fa sentire sola al mondo, si è avvicinata al messaggio che l’inconscio sano le dà per sottrarsi alla dipendenza. Quella solitudine estrema mira a uccidere la parte dipendente, l’Io-feticcio il cui scopo è essere solo una bambola nelle mani altrui; mira a dare degna sepoltura al fantasma della simbiosi che la abita da sempre.
Questo discorso vale naturalmente anche per gli uomini dipendenti affettivi, che non sono pochi, ma sono mascherati da un generico machismo che li obbliga a ignorare la propria schiavitù d’amore. Anche loro sono stati servi di almeno un genitore e educati a una sottomissione operosa e caritatevole. Non di rado sono schiavi anche di un’immagine sociale che li pervade come una seconda anima e nella quale si dibattono.
Cosa ne facciamo dell’angoscia di morte in psicoterapia? E’ positiva o negativa? Ebbene, il sentimento dell’agonia mortale dell’Io-feticcio è uno dei momenti terapeutici risolutivi della dipendenza, ma deve essere accompagnato da una solida impalcatura interpretativa, diversamente sarà respinto come un dolore assurdo e senza senso. Solo accettando che la propria vita ha perso di senso, il senso che le conferiva la dipendenza, solo allora il paziente può scoprire la semplicità e la pienezza del proprio desiderio originario.
Una testimonianza. La schiavitù morale
La testimonianza che segue illustra una tipica situazione di dubbio ossessivo in una giovane donna educata alla mortificazione di sé e quindi incline a sacrificarsi per un’idea astratta, puramente convenzionale, dell’amore. Una ragazza di questo tipo è predisposta alla dipendenza affettiva, che anche se non è resa presente in virtù di una relazione, è latente nella forma della mortificazione, del dubbio su di sé, del senso di colpa nei confronti del partner.
Ho evidenziato in grassetto le frasi che mostrano con più evidenza la tendenza a ignorare i propri bisogni e la propria identità, a mortificare la proprio sensibilità amorosa e il proprio spirito critico. Questa giovane donna è di fatto dipendente da un fantasma d’amore, da un uomo idealizzato il cui ricordo implica costantemente la colpa di averlo lasciato e la morte della propria verità interiore.
Caro dottore,
ho letto quello che ha scritto sulla schiavitù d’amore e mi sembra la persona più adatta a capirmi. Questa è la mia storia.
Sin da piccola ho sempre sentito un enorme bisogno di affetto e di sicurezza, cercavo coccole e attenzioni da parte dei miei genitori, amici, professori. Se mi veniva regalata una cosa chiedevo subito: «Se si rompe me ne compri un’altra?» per essere rassicurata. Ho sempre desiderato l’amore da parte dei miei genitori, ho sempre cercato la loro approvazione. Sono stati sempre molto critici nei miei confronti e, in maniera velata, hanno cercato di inculcarmi le loro idee, il loro punto di vista sulle cose, facendo sì che mi sentissi inadeguata se pensavo in altro modo. Spesso insoddisfatti, nonostante gli ottimi risultati, mi hanno spinto ad una sorta di ricerca della perfezione.
I miei non si amano da tempo, si limitano a convivere, mai un gesto affettuoso, ma solo mio padre che chiede cosa si mangia e va a guardare la televisione e mia madre sempre depressa e frustrata. Ricordo che quando ero piccola pensavo che un giorno avrei voluto avere dei figli per farli sentire in colpa come mia madre faceva con noi dicendo che non l’aiutavamo, che era stanca, che rinascendo non si sarebbe sposata. A casa mia vige la regola della colpevolizzazione, se c’è un problema non si cerca la soluzione, ma solo il colpevole. Colpevolizzazione, responsabilità, sacrificio, rassegnazione, insomma la vita è sofferenza, la vita è triste. I miei genitori sono persone buonissime e tuttavia secondo me non si dovevano sposare o dovevano lasciarsi.
So che mi amano anche se non mi sento amata…è il loro modo di amare, ma non credo che rispetti quella che io sono.
Veniamo a me: ho 32 anni, sono intelligente (almeno credo!), estremamente sensibile e intuitiva, buona, prodiga ad aiutare chi è in difficoltà, generosa, idealista, sognatrice, introspettiva, piena di contraddizioni, istintiva e razionale, dolce ma riesco ad essere anche acida, insicura, inquieta, perfezionista, lunatica con sbalzi di umore alle volte anche repentini, mi faccio duemila problemi per trovare sempre la soluzione migliore, sto lì ad analizzare tutti i se, i ma, i perché, sono ipercritica con me stessa, malinconica e pessimista. Non amo le vie di mezzo, se non riesco ad avere tutto, preferisco niente. Questo è stato spesso un problema, mi ha spesso demotivato di fronte alle cose, ma non riesco ad accontentarmi, sarebbe come scendere a compromessi con me stessa. Spesso non riesco ad accettare che la vita non vada come voglio e questo mi demotiva. Mi capita di continuare a pensare a quello che potevo fare nel passato, a rimpiangere, cercando di capire dove e perché ho sbagliato, piuttosto che pensare in modo costruttivo al futuro…mi sembra sempre troppo tardi. Nella vita sogno il grande amore, una famiglia, dei bambini, ma ho paura che non riuscirò ad avere queste cose…penso che incontrare la persona giusta sia un miracolo soprattutto se si è esigenti. Ma senza l’amore la vita che senso ha? Ho soprattutto paura che il tempo passi e la mia vita scorra inutilmente senza senso. Penso spesso di avere sbagliato tutto, di avere sbagliato percorso e che ormai sia troppo tardi.
Ecco il problema. Sono stata 9 anni fidanzata con un ragazzo dolcissimo, che mi amava e mi ama veramente. Nonostante lo amassi ho sempre sentito la mancanza di qualcosa nel nostro rapporto, credo dovuta a caratteri molto diversi: pratico, equilibrato e concreto lui, sognatrice, inquieta e con la testa tra le nuvole io…Quando ci siamo messi insieme ero una bambina che non credeva ci fosse una persona giusta. Lui mi piaceva, era dolce, carino e pensavo che questo bastasse… che l’amore sarebbe arrivato e che non occorresse altro. Lui era dolce, affettuoso, buono, sincero, limpido, ma anche poco romantico e passionale, non riusciva mai a sorprendermi, aveva sempre la testa sulle spalle, mai un cedimento, nelle discussioni voleva avere sempre ragione, non cercava mai di capire il mio punto di vista, non cercava il dialogo ma era arrogante e presuntuoso. Era superficiale e restava ancorato alle sue idee. Non era disposto a superare i suoi limiti per me. Spesso non mi sentivo capita, alzava la voce e diventava aggressivo, mi sentivo sbagliata, in colpa, mi diceva che avevo bisogno dello psicologo. I primi anni li ho passati cercando di capire com’era, di capire se certe reazioni erano provocate da me, se ero io a pormi male. Non lo conoscevo ancora bene e cercavo di capire se era il suo carattere, se ero io che facevo uscire in certe situazioni il peggio di lui. Gli ho spesso parlato di quello che mancava ma non è cambiato niente, anzi si innervosiva perché “pretendevo”. Così ad un certo punto mi sono rassegnata, non mi sono aspettata più nulla, ho capito che il carattere non si cambia e che, se lo amavo, dovevo accettarlo così com’era… Purtroppo, però, ho continuato a sentire quella insoddisfazione e ho concentrato l’attenzione su di me… Mi sono posta mille dubbi, sono entrata in crisi chiedendomi se fossi incapace di amare, se fossi intollerante, se fossi troppo insicura o insoddisfatta, se non fossi in grado di essere felice. E’ passato molto tempo ed è passato perché comunque ci volevamo bene, perché abbiamo condiviso tanto e alternavamo momenti belli a quelli meno belli. Alla fine, però, stanca di avere dubbi, di chiedermi ”sono io o e lui?”, di essere in conflitto con me stessa, ho pensato che potesse non essere la persona giusta, l’anima gemella, il vero amore, quello di Romeo e Giulietta, l’uomo pronto a morire per l’amata, a fare di tutto per renderla felice… Così ho preso coraggio e l’ho lasciato e non è stato facile… Gli ho detto che non ero più sicura di amarlo perché mi sembrava inutile dirgli che c’era qualcosa che non andava.
Sono passati due mesi e mi manca da morire… Mi chiedo se ho fatto la cosa giusta, se invece non era meglio parlargliene…non riesco a vedere la mia vita senza di lui, a immaginarmi con un altro. E’ parte di me e lo sarà sempre ma sentivo quel senso di insoddisfazione e quel dubbio che non mi abbandonava. Mi chiedo se è vero che non era la persona giusta, se devo solo aspettare che il tempo passi oppure se sono io che sono sbagliata.
Ho anche conosciuto un ragazzo che sembra l’uomo ideale, quello che ho sempre sognato. Ma non faccio che pensare al mio ex e non capisco se è perché lo amo ancora o perché è passato poco tempo dalla separazione. Non so se è stato amore vero, non so se l’amore basta anche quando senti che manca qualcosa e non so neanche se mancava veramente qualcosa o è colpa mia che magari non riesco ad essere felice e sono sempre insoddisfatta… In pratica… non so niente… sono confusa… Soffro e sono in crisi con me stessa…Ho paura di avere sbagliato…ho paura che tornando indietro continuerei a sbagliare… ho paura che non sarò mai felice…
Non ricordo più le motivazioni, ma solo la sensazione di quella insoddisfazione. Guardo al mio futuro e vedo solo buio, non credo che riuscirò a formarmi una famiglia, a essere felice, non credo che riuscirò a strapparmelo dal cuore… Ho un’età in cui dovrei avere e avrei voluto già una famiglia e invece mi trovo qui a dover ricostruire la mia vita e non credo che ci riuscirò…
Ho anche paura di avere rovinato la vita del mio ex… Anche lui voleva una famiglia e la voleva ora (ha 35 anni) e io mi sento responsabile se non riuscirà a realizzare il suo sogno… Mi sento una catastrofe… sento di avere compromesso la mia e la sua vita… Sarebbe più facile tornare indietro ma ho paura di peggiorare e compromettere irrimediabilmente le nostre vite.
Non riesco a immaginarmi con nessun altro, però ho paura di quel vecchio senso di insoddisfazione e mi chiedo se sia giusto tornare indietro… L’amore non ci deve rendere felici? Oppure in nome dell’amore è giusto sopportare anche l’infelicità? Il mondo è pieno di persone che si accontentano, che vivono le frustrazioni di un sentimento che non li appaga: hanno paura della solitudine, del fallimento, dell’ignoto.
Io non voglio essere schiava del sentimento, voglio cercare l’amore senza dubbi, quello che ti rende felice di esistere anche se credo non lo troverò mai, ma non provarci sarebbe come rinunciare a me stessa e ai miei sogni.
Non riesco a dimenticarlo, mi manca da morire, ma è sufficiente per tornare indietro? Che fare? Posso tornare con lui perché senza di lui sto peggio? Perché soffro? Quando stai con qualcuno non dovresti pensare che sia la persona migliore del mondo? Il punto è che sono stanca di sentire questa insoddisfazione, di chiedermi se sono io che non vado… Da un lato mi manca, è veramente una parte di me, siamo cresciuti insieme e abbiamo condiviso tanto… dall’altro ricordo di non essermi mai sentita veramente “appagata” da lui.
Quando mi lasciai con il mio primo ragazzo ero disperata, ho pianto per 5 anni e poi, un giorno, ho capito che per quanto lo amassi non sarei stata felice con lui perché non mi avrebbe mai dato quello che volevo e probabilmente io non lo avrei dato a lui. Ho capito allora che l’affetto non basta e forse questo mi ha condizionata ma, se lui non mi avesse lasciata, se non avesse capito anche per me, magari ci saremmo sposati e sarebbe stato chissà quale disastro.
Il mio ex quando gli parlavo dei miei problemi mi diceva sempre: «sei depressa, devi andare dallo psicologo, non sai chi sei e cosa vuoi». Questa cosa mi faceva innervosire perché mi sembrava arrogante e superbo, ma alla fine non riuscivo più a capire se le cose non andavano perché realmente non andavano o se ero io a viverle male perché avevo bisogno dello psicologo. Con questi dubbi non stavo più bene con me stessa. E’ possibile che io abbia i miei problemi ma devo fidarmi delle mie sensazioni e queste mi dicevano che non ero serena con lui, mi mettevo sempre in discussione, non capivo più se quello che sentivo lo sentivo veramente o era frutto della mia mente. Ma che altra strada se non ascoltare le mie sensazioni? E’ veramente così? Sono reazioni “normali” le mie? Non era la persona giusta o sono io che ho bisogno dello psicologo? Esiste l’amore senza dubbi che ci appaga o siamo sempre costretti a compromessi? Si può amare la persona sbagliata o non è vero amore? E se è amore è giusto restare insieme anche se si è insoddisfatti perché l’amore chiede solo di badare alla felicità dell’altro e non alla nostra? L’amore non dovrebbe rendere felici?
Vorrei tanto poterla incontrare. Lei è l’unico che può aiutarmi.
Grazie.
Nicola Ghezzani
Psicologo clinico, psicoterapeuta
formatore alla psicoterapia
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