Carl Gustav Jung e l’Alta Sensibilità
Un’inquieta alleanza
Aveva trentuno anni, Carl Gustav Jung quando, nel 1906, lesse per la prima volta l’Interpretazione dei sogni, il capolavoro di Sigmund Freud, e ne rimase affascinato. Come ci mostrano le foto, Jung era un giovane alto e di bell’aspetto, ma alquanto irrigidito nel ruolo di psichiatra accademico. Dalla sua autobiografia e dalle numerose biografie successive, sappiamo che era un uomo di straordinaria intelligenza e di temperamento sensibile e passionale.
Letto il libro, decise di far visita al maestro viennese, che aveva allora cinquantuno anni; cosa che avvenne nel 1907. Fu un incontro fortunato e ne nacque un rapporto idilliaco. Sembrarono da subito padre e figlio, un re e il suo principe ereditario, il maestro e il suo allievo preferito. Jung era oppresso dai lunghi e impegnativi anni di internato psichiatrico alla clinica universitaria di Zurigo – quasi un monastero guidato con polso fermo da Eugen Bleuler – e cercava nuove ispirazioni; Freud temeva che il suo movimento restasse confinato in ambito ebraico, e cercava nuove alleanze. Pensarono dunque di essere necessari l’uno all’altro. Jung adottò per intero la teoria freudiana e la difese ovunque; Freud sognò che il suo allievo portasse la sua “figlia spirituale”, la psicoanalisi, fino alle vette della psichiatria mondiale. Li separavano vent’anni, l’arco di una generazione, e il passaggio del testimone sembrò loro naturale.
Ma come spesso accade, l’intesa durò poco: Jung era orgoglioso e insofferente a sottomettersi a qualunque volontà esterna; Freud aveva un altissimo sentimento della dignità personale ed era altrettanto insofferente ad ammettere di aver bisogno di qualcuno. Il fastidio reciproco filtrò dapprima nell’inconscio di entrambi, poi si manifestò in aperti contrasti.
Il dissenso si palesò due anni dopo.
Nel 1909, con Freud e il suo giovane allievo Sàndor Ferenczi, Jung si recò alla Clark University di Worcester, nel Massachusetts, dove ricevette la laurea honoris causa in Legge. Durante il viaggio in nave, i due pionieri della psicoanalisi analizzarono l’uno i sogni dell’altro. Si svolse allora un vero e proprio duello psicoanalitico sull’oceano, dove ciascuno rappresentò i ruoli sia dello psicoanalista che del paziente. Vestiti di tutto punto, con giacca e panciotto, ora in poltrona ora ai bordi di un tavolo, si parlarono e si scrutarono con occhi indagatori. Di sicuro, Freud brandiva i suoi sigari, Jung la pipa. Ciascuno, si teneva saldamente nascosto dietro le sue prevedibili difese.
Poi avvenne l’incidente.
Come scrisse Jung nella sua autobiografia (1961), Freud ebbe un atteggiamento reticente su particolari della sua vita privata necessari per poter fornire l’interpretazione corretta di un sogno: «Consideravo Freud una personalità più anziana, più esperta e matura, e mi sentivo come un figlio suo. Ma poi capitò qualcosa che inferse un duro colpo alla nostra amicizia. Freud ebbe un sogno, che implicava problemi che non mi sento autorizzato a riferire. Lo interpretai come meglio potevo, ma aggiunsi che si sarebbe potuto dire molto di più se mi avesse fornito alcuni particolari sulla sua vita privata. A queste parole Freud mi guardò sorpreso, con uno sguardo carico di sospetto, e poi disse: “Non posso mettere a repentaglio la mia autorità!” La perse in quel momento». La delusione di Jung fu cocente: in un solo colpo, ripudiò l’amico e il maestro.
Due anni dopo il dissenso fu insanabile. Nel 1911 Jung pubblicò la sua prima opera in aperto contrasto con Freud, Trasformazione e simboli della libido. Si trattava di un’opera complessa, gremita di riferimenti culturali e dedicata a una patologia ritenuta incurabile, la schizofrenia. Infine, cominciò a tirar fuori alcune riflessioni sulla sensibilità.
La prima volta di Carl Gustav Jung
La prima volta che Carl Gustav Jung parlò di sensibilità fu nel Saggio di esposizione della teoria psicoanalitica, un testo redatto nel 1912 per essere letto in una serie di conferenze e pubblicato un anno dopo, nel 1913. Nel testo, composto per essere letto alla Fordham University di New York, Jung affronta punto per punto la teoria delle nevrosi di Freud e la sottopone al fuoco di fila delle sue argomentazioni, con l’intento polemico di prenderne le distanze.
Jung era ormai deciso a differenziarsi dal vecchio maestro. L’America, il “nuovo mondo” in cui stampa, cinema e propaganda dominavano la scena, sarebbe stata il palcoscenico perfetto per annunciare urbi et orbi la nascita della sua nuova psicologia.
Ma in cosa Jung si sentiva diverso dal vecchio maestro? In una cosa fondamentale: la positività della nevrosi. Freud era un pensatore radicalmente pessimista e in fondo cinico circa la natura umana; per contro Jung era animato da un certo ottimismo. Nella sua concezione, lo squilibrio psichico non dipendeva dalla violenza di istinti innati, come pensava Freud, bensì da una qualità positiva, la sensibilità, disturbata da cure primarie e da vicende sociali inadeguate, che avevano mortificato le qualità primarie dell’individuo.
Il pessimismo di Freud era evidente sin nella struttura profonda della sua personalità: egli sostanzialmente un fobico con tratti ossessivi difeso dai suoi allievi – i suoi figli spirituali – come da potenziali parricidi, di cui temeva l’invidia e la ribellione. Jung, per quanto astuto, era pur sempre un entusiasta aperto alla fiducia: credeva che i nevrotici fossero perlopiù persone sensibili e che i suoi allievi in particolare rappresentassero la parte migliore dell’umanità. Dunque, mentre lo sforzo di Freud era inteso a correggere un’umanità affetta da deviazioni morali e da lui sostanzialmente disprezzata, Jung intravedeva una élite di spiriti eletti altamente sensibili, che stabiliva un rapporto diretto col destino del mondo. Chiamò processo di individuazione il lavoro di integrazione della personalità funzionale a risvegliare l’autocoscienza e il senso di responsabilità individuale.
Ecco cosa scrive Jung a proposito della sensibilità: «Chiunque osservi attentamente i bambini piccoli constata che già nel lattante può aversi una sensibilità maggiore del normale. […] Queste profonde differenze, che risalgono ai primi anni di vita, non possono venire spiegate con gli avvenimenti accidentali della vita, e vanno considerate differenze innate. Da questo punto di vista non si può affermare che la storia psicologica sia la causa della sensibilità che si manifesta nel momento critico; sembra più esatto dire che è quella sensibilità innata a farsi naturalmente sentire con più violenza al cospetto di situazioni insolite. Questo alto grado di sensibilità è molto spesso una dote in una personalità e spesso contribuisce al suo fascino più di quanto non danneggi il carattere. Solo quando si verificano situazioni difficili e insolite il vantaggio suole rovesciarsi in uno svantaggio spesso assai grande, in quanto la tranquilla riflessione viene disturbata da emozioni inadeguate. Ma niente sarebbe più inesatto che valutare questo alto grado di sensibilità come una componente eo ipso morbosa di un carattere. Se così fosse davvero, bisognerebbe probabilmente considerare in condizioni patologiche circa un quarto dell’umanità» E infine: «L’ultima e più profonda radice della nevrosi sembra essere la sensibilità innata, che prepara già per il lattante delle difficoltà sotto forma d’inutili eccitazioni e resistenze» (Jung, 1913, cit.).
Si tratta di dichiarazioni forti. Jung afferma l’esistenza di costituzioni psicologiche diverse, che un quarto dell’umanità è costituito da persone sensibili e che «Solo quando si verificano situazioni difficili e insolite il vantaggio [di essere sensibili] suole rovesciarsi in uno svantaggio». Sta di certo pensando alla sua stessa personalità, così incline alla suggestione e alla fantasia.
Autoanalisi e processo di individuazione
Come ogni persona altamente sensibile, Jung è un uomo influenzabile. Subisce il fascino delle persone amate e di quelle ammirate; sa anche che il conflitto con le persone amate può comportare rischi di ordine emotivo.
In quel periodo, sta riflettendo sulla sua dipendenza da Freud e sulla drammatica crisi vissuta al momento della rottura. Forse sta pensando alla madre, donna umbratile caratterizzata da una doppia personalità, e al padre, uomo mite ma debole e remissivo. Ma sta anche elaborando un’idea sempre più chiara delle eccellenze intellettuali e del destino di cui sono portatrici. Si sente a tutti gli effetti l’erede genetico di due genitori ipersensibili, cui associa una fantasiosa discendenza da Johan Wolfgang Goethe. Prova vergogna per aver subito l’ascendente prima di Bleuler poi di Freud – soprattutto di quest’ultimo, di cui percepisce l’enorme fascino intellettuale – e un non meno angoscioso imbarazzo per la sua ascendenza, così vibrante e così fragile. Si sente “troppo sensibile”. Ma, allo stesso tempo, identifica con chiarezza l’elemento di forza e di salute di questo tratto misterioso e affascinante.
Dello stesso tenore del Saggio è l’articolo Sulla psicoanalisi, del 1916. In questo nuovo, intenso saggio, scrive: «Una persona sensibile e alquanto squilibrata, com’è sempre il nevrotico, incontrerà nella sua vita particolari difficoltà e forse compiti più insoliti che un uomo normale, il quale di regola non ha che da seguire il sentiero già tracciato di un’esistenza normale. Per il nevrotico non esiste un modo di vivere esattamente prestabilito, perché i suoi scopi e i suoi compiti sono perlopiù di natura molto individuale. Egli cerca allora di percorrere la via più о meno incontrollata dell’uomo normale, senza rendersi ben conto del fatto che la sua natura critica e diversamente strutturata esige da lui sforzi maggiori di quelli che un uomo normale è costretto a compiere. Esistono nevrotici che hanno dimostrato la loro forte sensibilità e la loro resistenza all’adattamento fin dalle prime settimane di vita, incontrando per esempio difficoltà nell’accettare il seno materno, reagendo in modo vistosamente nervoso ecc. Non sarà mai possibile trovare un’etiologia psicologica per la singolarità della costituzione nevrotica, perché questa costituzione viene prima di ogni psicologia. La si potrebbe chiamare “sensibilità congenita”, ed è la causa delle prime resistenze all’adattamento».
Ovviamente sta parlando di sé.
Jung si percepisce come un uomo di spiccata sensibilità, una “sensibilità congenita”, il quale per non cadere nelle more della nevrosi dovrà percorrere una via singolare, tutta sua, diversa da quella dell’uomo comune. La sua originaria “resistenza all’adattamento”, presente già nel rapporto col seno materno, lo ha portato a possedere una “natura critica e diversamente strutturata”. Egli è ben consapevole del processo di individuazione che si accinge a percorrere, processo che lo porterà ad assumersi la piena responsabilità del suo ruolo nel mondo.
Di conseguenza, la presa di coscienza della sua natura si accompagna ad una presa di posizione teorica sempre più chiara. Ormai è perfettamente consapevole che mentre Freud ritiene che i disturbi mentali derivino da “pulsioni” incontrollate, cioè da una incoercibile istintualità di origine animale, lui identifica l’origine delle nevrosi in una qualità egualmente biologica, ma umana, non ravvisabile negli animali: la sensibilità.
Insomma, per Freud esiste una continuità fra la vita animale e quella umana, e i disturbi dell’uomo civile dipendono da questa; per Jung fra l’animale e l’uomo esiste una netta discontinuità, e l’uomo soffre per gli eccessi della sua sensibilità.
Per concludere
Freud era un uomo orgoglioso e pessimista; aveva fin troppa coscienza della crudeltà insita nell’uomo e nelle sue istituzioni, e sognava di mettere a punto una psicoterapia che aiutasse a domare gli impulsi più pericoli – e più vergognosi – della mente inconscia. Aveva dunque una personalità fobica e tendeva alla depressione. La sua era una visione strutturale di carattere generale e la sua psicoterapia, la psicoanalisi, accampava una vocazione universalistica, che pochi, quasi nessuno, erano disposti a favorirgli.
Al contrario di lui, Jung era fiducioso e sensibile; ma dovette associare a queste tendenze primarie una certa attitudine all’astuzia. Un lieve tratto ipomaniacale fece della sua vita una corsa frenetica verso temi sempre più innovativi, fra i quali la sensibilità innata. Ma, sapendo di non poter chiedere troppo alle istituzioni sociali contingenti, non la trattò in modo chiaro ed esteso e ne fece cenno solo in pochi articoli, di natura clinica. Col tempo, si nascose sempre di più dietro il groviglio di argomenti esoterici.
Noi oggi siamo nella condizione privilegiata di poter guardare al mondo poggiandoci sulle spalle di questi giganti. Sappiamo che la genetica determina gran parte del nostro destino e che l’ambiente modula questa determinazione. Sappiamo che la sensibilità – e, per meglio dire, l’empatia e il pensiero profondo – è alla base dell’evoluzione dell’uomo ed è un tratto genetico, inoltre che, come ogni carattere genetico, varia da individuo a individuo.
Integrando le lezione di questi ed altri teorici, circa lo studio delle diversità umane e la patologizzazione dell’inconscio, possiamo affermare – come ho fatto io stesso – che la popolazione dei pazienti negli studi di psicoterapia è quasi interamente costituita di persone altamente sensibili o, come li chiamo io, di “iperfunzionali”. La cattiva gestione del tratto “sensibilità” dà luogo a sofferenza, disadattamento e nevrosi; per contro, la sua buona gestione – anche da parte degli psicoterapeuti – può far maturare personalità di grande spessore. Grazie a molti evoluzionisti sappiamo che le basi dell’evoluzione umana poggiano sull’empatia e sull’intelligenza ramificata, quindi sulla sensibilità. Grazie agli storici, sappiamo che la maggior parte dei talenti e dei geni dell’umanità sono facilmente identificabili come persone altamente sensibili.
Sta a noi far fruttare questa ricchezza.
Percorso bibliografico
Ho trattato per esteso questo tema nel libro monografico “Il dramma delle persone sensibili” (FrancoAngeli, 2021). Il libro è il primo tentativo di unificare la teoria dell’alta sensibilità con quella dell’introversione e della plusdotazione, creando la categoria della persona iperfunzionale. Il libro costituisce inoltre sia la mappa di questo complesso territorio psicologico, che un programma per il futuro.
Di mio, consiglio anche il libro “Volersi male” (FrancoAngeli 2002) nel quale per la prima volta segnalo l’importanza della sensibilità e il suo coinvolgimento nella genesi della psicopatologia; e “La lingua perduta dell’amore” (FrancoAngeli, 2023) nel quale allargo l’ipotesi di ricerca alla teoria dei generi e del rapporto uomo-donna.
Fra gli autori che ho amato, oltre a Jung, raccomando la lettura del libro di Luigi Anepeta “Timido, Docile Ardente” (FrancoAngeli 2015), che spezza il tabù sull’introversione e le sue iperdotazioni; e il libro di Elaine Aron, “Persone altamente sensibili” (2020) nel quale si delinea per la prima volta il movimento delle persone sensibili nel mondo.