Intervista con Nicola Ghezzani su Megalomania e Mitomania
di Massimo Barberi per la rivista “Mente & Cervello”
Massimo Barberi: Gentile dr. Ghezzani, ecco le domande che vorrei farle per il mio articolo.
La prima è questa: esiste una stima o un’indagine epidemiologica su quante sono le persone che soffrono di mitomania e megalomania?
Nicola Ghezzani: Come sempre, nella ricerca gli americani sono molto più attivi di noi. Secondo lo ECA (Epidemiological Catchment Area) che opera nella zona di Baltimora, il Disturbo Istrionico di Personalità (che è la definizione della mitomania secondo il DSM-III) tocca il 2,1% della popolazione globale ed è egualmente distribuito tra uomini e donne. Ovviamente il dato riguarda la patologia grave, conclamata. È sempre associato al Disturbo Narcisistico di personalità, il quale comprende l’ambito della megalomania e può raggiungere il 5, 6% della popolazione globale.
M. B.: Il caso raccontato nella lettera presentata nel suo sito QUI (e altri che ho trovato in letteratura) sono evidenti, chiari. Insomma, disturbi psicopatologici senza alcun dubbio. Ma esistono sfumature di grigio? Nel senso, che credo ognuno di noi conosce individui che ogni tanto le sparano grosse (sono famosi i pescatori, in questo). Si possono considerare forme lievi della stessa patologia?
N. G. Una sindrome psicopatologica è tale quando assume un carattere parassitario su ogni altro tratto della personalità. Nei casi lievi (in cui mitomania e megalomania sono fenomeni blandi ed episodici) possiamo parlare di “tendenza” mitomanica o megalomanica, non di una “sindrome” vera e propria.
Il fenomeno lieve è in effetti piuttosto diffuso e assolve alla funzione narcisistica di proteggere il soggetto dall’angoscia annichilente di valore poco o nulla o nei casi più gravi di non esistere affatto per nessuno. La sua grande diffusione dipende sia da fattori psicologici intrinseci (un’ansia o una depressione latenti) sia da fattori sociologici: nel mondo attuale chi conta è colui che appare molto, che si esibisce, che stupisce. Per esistere dobbiamo contare per “tutti”, non più solo per “qualcuno” come accadeva un tempo.
In ciò i media contano moltissimo: lo scoop giornalistico, per esempio, è un modello comunicativo per cui solo l’evento eccezionale conta qualcosa. Egualmente contano i reality e i talk show televisivi, la celebrità accordata all’abnorme e all’eccessivo, mai al normale e all’ordinario, per esempio alla professionalità e alla dedizione morale. Come diceva Andy Wharol, che aveva capito il mondo moderno tanto da diventarne uno degli interpreti più paradossali: «15 minuti di celebrità non si negano a nessuno».
Lei dice i pescatori della domenica ne sanno qualcosa. Bene: pensiamo al pescatore del racconto di Hemingway Il vecchio e il mare. È un vecchio uomo deluso che punta tutto su un meraviglioso pescespada pescato con la sua piccola barca. Lo lega al bordo, per trascinarlo con sé, e non vede l’ora di farlo ammirare all’intero villaggio, per dimostrare che egli è un uomo ancora valido. Ma purtroppo sulla via del ritorno i pescecani glielo divorano. La delusione è immensa. Ricordo che, poco dopo aver scritto questo racconto e nonostante il premio Nobel appena conseguito, Hemingway si suicidò. Evidentemente Hemingway si identificava col pescatore che non riesce a dimostrare al suo piccolo villaggio la sua effettiva grandezza. Purtroppo per Hemingway, per lui il villaggio coincideva col mondo intero. Il premio Nobel non bastò a placare la sua angoscia di insignificanza.
L’episodio dimostra che per taluni è necessario mantenere un’opinione molto alta di sé, diversamente rischiano la depressione grave e persino il suicidio.
M. B.: Amici e conoscenti se ne accorgono in breve tempo se una persona è mitomane o megalomane (suppongo). Come devono comportarsi? Tenendo presente che nel giro di poco tempo, queste persone diventano francamente antipatiche.
N. G.: Devono mostrargli il rischio sociale a cui essi, mitomani e megalomani, si espongono: disistima pubblica, perdita dell’affetto e dell’amore, talvolta catastrofi economiche e giudiziarie. E occorre premere sul tasto che si può valere e meritare amore per ciò che si è non per ciò che si mostra.
Una volta preso atto e mostrato che la persona che soffre di tali disturbi si fa del male o fa del male a persone a lui vicine occorre segnalargli che si tratta di una patologia di natura psicologica e che pertanto è bene che ne parli con uno specialista.
M. B.: quali sono le conseguenze psicologiche per chi soffre di tali patologie se non viene curato?
N. G.: Come dicevo: in prima battuta, danni affettivi e sociali in genere; a questo livello il danno può essere molto grave.
Pensiamo al ragazzo che falsifica il libretto degli esami per dimostrare ai genitori e agli amici che si sta per laureare: commette un reato e si mette in una situazione difficile con tutti. Poi, in seconda battuta, una volta che il gioco di finzioni non regge più e termina la fase maniacale, c’è il rischio del crollo depressivo. Allora si può fuggire, oppure tentare il suicidio. O anche diventare violento con chi ci ricorda il male fatto e l’impossibilità di mantenere le promesse.
M. B.: nei bambini la bugia è quasi naturale (pensiero magico). A che età dovrebbe scomparire? E in ogni caso, quando il bambino mente con le caratteristiche della pseudologia, bisogna preoccuparsi?
N. G.: Nel bambino occorre distinguere l’immaginazione dalla mistificazione. L’immaginazione è una funzione sanissima: guai al bambino che non fantastica almeno un po’. La fantasia lo aiuta a proteggersi da una realtà nella quale egli è di fatto impotente e a crescere grazie a progetti immaginati, sempre disponibili e accessibili. Solo nel caso che diventi parassitaria, totalizzante, l’immaginazione è patologica.
Anche la mistificazione ha dei livelli di assoluta normalità: un po’ di bugie sono normali, anch’esse proteggono il bambino dall’impatto con le prescrizioni e le proscrizioni morali sociali. Diventano patologiche quando il bambino copre con la bugia un’identità (personale o familiare) di cui si vergogna. Se la bugia diventa sistematica, diventa una pseudologia, allora occorre intervenire.
M. B.: alla fine del suo articolo delinea una diversa visione (psicodialettica) della questione, ma non riesco a capirla fino in fondo. Me la può spiegare meglio?
N. G.: Come ho spiegato nei miei libri, in particolare in Volersi male, La logica dell’ansia e Grammatica dell’amore, è impossibile capire fino in fondo la psiche umana se non si parte dal dato che la base psichica dell’Io è il noi. Ossia: l’identità individuale esiste solo sullo sfondo di una identità sociale, di gruppo.
Ciascuno di noi è dominato e in parte “costituito” dalla volontà sociale. Questo è ciò che la Psicologia dialettica definisce come bisogno di integrazione sociale, o di appartenenza sociale, cui si contrappone lo sviluppo dell’identità autonoma. In ogni psicopatologia persiste la dominanza assoluta, per quanto nascosta, del noi sull’Io: il depresso teme l’opinione degli altri; l’ossessivo si conforma a regole vissute come oggettive; l’isterica sogna la dipendenza perfetta da un Altro (un amante ideale ecc.).
Nella mitomania e nella megalomania l’individuo è come un bambino che deve sempre dimostrare a qualcuno che lui vale qualcosa. È schiavo dell’Altro, del noi. Nella mia impostazione teorica e nella mia pratica clinica, l’autonomia compiuta esclude la dominanza del giudizio sociale (del noi) all’interno dell’Io, quindi rende ciascuno libero di essere se stesso.
Solo a questo punto l’Io scopre la vera socialità, quella nella quale la relazione è impostata al livello minimo sulla cooperazione, e a quello massimo sulla perfetta reciprocità dell’amore.