Intervista su Alterità e Individuazione a Nicola Ghezzani
Per la Rivista di Letteratura e Cultura Euterpe
A cura di Valentina Meloni
Alterità e individuazione, iperdotazioni psichiche e crisi d’identità attraverso la teoria dialettica fondata dal Dottor Nicola Ghezzani
(2015)
I – Empatia e dialettica
Valentina Meloni: Domanda. Cito dal suo sito personale: «Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività». Sempre nel suo sito c’è del materiale molto interessante che ha lasciato in visione ai suoi lettori o agli avventori del web. Quello che mi ha colpito è il suo approccio all’altro in atteggiamento di totale apertura tanto – sempre nel sito – ha pubblicato una sezione totalmente dedicata alla sua storia e nel suo libro “Ricordati di rinascere” ha analizzato la sua esperienza personale. Quanto conta nella relazione con l’altro, con i suoi pazienti, ma anche con i suoi lettori, porsi in un atteggiamento dialettico, parlando di sé e usando il dialogo come strumento di indagine e allo stesso tempo di riunificazione?
Nicola Ghezzani: Risposta: la base di ogni rapporto terapeutico è l’empatia. All’università e nelle scuole di psicoterapia si tende a dimenticarlo a favore di una formazione “cognitiva”, ossia dell’acquisizione di un metodo che consenta di osservare i comportamenti del paziente e di correggerli sulla base di un modello di salute standard. Ma questo modo di procedere con se stessi e con l’altro costituisce una forma particolare di patologia del rapporto, che potremo chiamare solipsismo gerarchico. In un rapporto siffatto “Ognuno sta solo sul cuor della terra” come recita un verso di Quasimodo. Non c’è modo di avviare un dialogo che coinvolga la coppia terapeutica in un processo di cambiamento che tocchi le strutture profonde dell’identità.
Essere con l’altro implica invece dimenticare ciò che si è acquisito (dopo averlo ben capito) e lasciarsi stupire e coinvolgere dalla presenza dell’altro, che è a suo modo unica e irripetibile, con una storia, una sensibilità e una personalità che nessun manuale può avere già descritto. Si tratta di “entrare in empatia”. Ma non si può entrare in empatia se non si conosce se stessi e non si è disposti a lasciarsi coinvolgere sulla base di ciò che noi stessi siamo. L’altro diventa allora l’occasione per ritrovare dentro di noi cose conosciute e dimenticate o cose che noi stessi tendiamo a rifiutare, e renderle parte della nostra comprensione umana e clinica. Questo è il motivo di fondo per cui ho scritto di me: per mostrare, a chi mi legge, chi mi segue e chi vorrà fare avere un rapporto professionale con me, che non ho intenzione di nascondermi dietro un paludamento professionale.
II – Alterità e follia
Domanda: Partendo dalla definizione di alterità più semplice [dal lat. tardo alterĭtas –atis, der. di alter «altro»] che nel linguaggio filosofico definisce il carattere di ciò che è o si presenta come «altro», cioè come diverso, come non identico, Lei, Dott. Ghezzani ritiene che il malato psichico, o per meglio dire colui o colei che ha attraversato o sta attraversando una crisi, sia ancora rifiutato dalla società nonostante la (quasi totale) scomparsa dei manicomi? Prendo spunto dalle parole di Mario Tobino che a distanza di dieci anni dalla prima pubblicazione delle Libere donne di Magliano scrive nella sua introduzione: «Scrissi questo libro per dimostrare che anche i matti sono creature degne d’amore” poi dopo alcune considerazioni si pone questa domanda: La pazzia è davvero una malattia? non è una delle misteriose e divine manifestazioni dell’uomo? Non esiste per caso una sublime felicità che noi chiamiamo patologica e superbamente rifiutiamo? Ora sarebbe proprio il momento che anche i sani fossero consapevoli di quel che succede, e collaborassero e intervenissero – questi sani che a loro insaputa sono anch’essi fragili – per poter passare da uno stadio al successivo, dalle nebbie alla luce.» Mario Tobino aveva compreso e sicuramente era stato profetico circa la situazione dei malati psichici che alla chiusura dei manicomi avrebbero continuato a rimanere –nonostante i progressi in campo psichiatrico e farmaceutico- fiori che nessuno riesce a vedere. A distanza di 42 anni (era il 1963) dalla formulazione di queste domande cosa vorrebbe rispondere?1
Risposta: Nel mondo contemporaneo assistiamo a due diversi atteggiamenti rispetto alla malattia mentale, uno è il rifiuto, laddove la malattia si pone come alterità irriducibile alle categorie di senso correnti. L’altro è di normalizzazione e quindi anche di idealizzazione, laddove la malattia non solo rientra nelle categorie di senso correnti, ma ne costituisce un asse portante.
Quando parliamo di psicosi, parliamo di una malattia mentale che in altre culture è stata un tempo significata come elezione iniziatica a un sapere mistico. Con ciò le antiche culture – classiche e sciamaniche – intendevano dire che in noi esiste una alterità che va tenuta sempre in conto. Ci deve essere uno spazio per il mistero, se non si vuole che una cultura precipiti nel caos. Ma stiamo parlando di culture politeistiche, nelle quali le divinità erano immanenti, partecipavano al gioco del cosmo, e rivelavano la loro essenza a individui in grado di trascendere gli scopi pratici mondani e attingere a un sapere extratemporale. Con l’avvento del monoteismo, l’alterità è diventata il Nemico. Per gli antichi (i Greci e Romani sono solo un esempio fra i tanti possibili) il Nemico era la suprema categoria politica. Con l’ebraismo, il cristianesimo e l’islamismo il Nemico divenne una categoria ontologica, assoluta. Gli antichi non avrebbero mai creduto all’esistenza di un Demonio, i monoteisti fondano il loro credo su questo. La dualità cessa di essere dialettica e si mostra come opposta e irriducibile (il Demonio è al di fuori di ogni pentimento, chi si identifica in lui è dannato). Si creano così due universi paralleli ciascuno dei quali è orrore per l’altro. Da qui l’orrore per la follia. La follia è la vicinanza al Demonio, al male, o, per dirla in modo più laico, all’errore della ragione. Foucault fu uno degli intellettuali che meglio compresero questo punto di vista estremo della Ragione moderna, Laing quello che restituì la follia al dominio dell’alterità empatica e Basaglia a quello della dignità politica.
Ma la malattia mentale, per altri aspetti, è oggi normalizzata e posta come modello di identità: si pensi all’anoressia sentimentale, cioè all’incapacità di amare, la solitudine assoluta di cui ho parlato nel mio libro “La paura di amare”, o alla comune psicopatia del narcisista che seduce una donna, la illude quando è più vulnerabile e poi gode nel farla crollare nell’umiliazione nel momento in cui l’abbandona, o alla psicopatia isterica della donna che rovina il marito sottraendogli la casa e i figli e mandandolo a vivere sotto un ponte, o del manager di successo che licenzia cinquanta dipendenti in una mattina o del politico di un paese emergente che decide un attentato terroristico da fare su gente sconosciuta di un paese lontano diecimila chilometri. Questa non è una follia minore di quella psicotica delirante, ma è normalizzata, anzi è uno degli assi della normalità corrente.
III – Individuazione, rispecchiamento, psicoterapia
Domanda: «Individuarsi significa diventare un essere singolo e, intendendo noi per individualità la nostra più intima, incomparabile e singolare peculiarità, diventare sé stessi, attuare il proprio Sé» (Jung, 1928). Sembra che l’individuazione del proprio Sé sia un processo cruciale di ogni individuo, individuarsi può voler dire anche differenziarsi e quindi essere costantemente in rapporto con l’alterità attraverso la negazione? Cito ancora da pag. 92 di Passioni psicotiche:” […] la clinica della psicosi è praticabile, tuttavia, solo laddove sia possibile cogliere della malattia il significato psicosociale di una individuazione fallita (come intuì Jung), non già il significato, per molti aspetti “psichiatrico”, di un presunto deficit soggettivo. Attualmente, nell’approccio alla malattia, si sta perseguendo in termini scientifico-sociologici una ricerca del significato psicosociale dell’individuazione fallita degli individui?
Risposta: Jung fu un uomo eccezionale, a lui dobbiamo alcune dei concetti centrali del pensiero psicoterapeutico moderno. Fra questi, il concetto di “individuazione”, inteso come separazione del Sé personale dall’inconscio collettivo (che poi divenne, negli psicologi di matrice freudiana angloamericana, separazione dell’Io infantile dalla Madre) è uno dei più importanti. Ma Jung va letto sapendolo storicizzare. Il concetto di individuazione è da un lato il prodotto della lettura profonda che Jung fece sui testi del misticismo gnostico cristiano; dall’altra è anche tributario – in modo semplice e diretto – dell’individualismo romantico e persino di un certo pragmatismo americano (attraverso William James). Quindi si tratta di un concetto prigioniero del mito dell’eroe romantico e del genio solitario e del conflitto per l’individuazione. Nelle sue pagine, l’individuazione si ottiene solo mediante un percorso simbolico di lotta contro le dipendenze. Ma Jung non tenne conto, nemmeno nella sua autobiografia (“Ricordi, sogni, riflessioni”) quanto furono importanti per lui gli accoppiamenti affettivi e intellettuali che accompagnarono il suo processo di individuazione: Sigmund Freud, Sabina Spielrein, Otto Gross, Antonia Wolf. Preferì dare di sé l’immagine dell’eroe solitario a contatto coi simboli, quindi anche del vecchio saggio. Lo fece per discrezione sulla sua vita privata, ma anche perché impregnato del mito dell’eroe romantico.
Io, oggi, preferisco tematizzare il processo di individuazione non come solitario ma come duale, quindi come fenomeno emergente del rispecchiamento. Colui che si individua ha una particolare attitudine a far emergere e valorizzare i contenuti della sua mente; ma può farlo solo in quanto ha l’occasione di rispecchiarsi in una relazione, una società, una cultura a lui favorevoli. Alla luce di questo concetto, la malattia mentale come anche la semplice carenza d’amore o di socializzazione si chiariscono meglio attraverso un processo psicoterapeutico intersoggettivo, dove il terapista prende il posto dell’Altro nella vita interiore del paziente.
Domanda: Sempre in termini di individuazione, leggo nel suo lavoro di scrittura e ricerca che ha collaborato con Francesco Alberoni e che, grazie al dialogo tra voi intercorso, sono nati dei libri il cui tema principale è l’amore, tema tra l’altro anche del suo ultimo libro L’amore impossibile. L’intuizione che le ha innescato la lettura di Alberoni ha contribuito alla creazione di un nuovo paradigma:L’individuazione non è soltanto un fenomeno di natura individuale ma è, innanzitutto, un fenomeno sociale e, nella relazione d’amore, è un potente impulso di natura duale, di coppia. Nella nostra teoria i fenomeni avvengono sempre nella mente diffusa, la mente sociale, di cui la coppia rappresenta l’elemento molare più piccolo, e da questa mente diffusa convergono poi verso la mente individuale. In questo senso la mente individuale è coinvolta tanto in processi di stabilizzazione sociale “conformista”, quanto di rigenerazione trasformativa “rivoluzionaria”, sulla base dei valori assimilati dal sistema sociale. Torniamo qui alla prefazione di Mario Tobino che ho citato prima. Considerando il fatto che egli, facendo quell’affermazione, fece emergere un’esigenza: che esisteva la necessità (e purtroppo ritengo che esista ancora) di dimostrare che i matti sono creature degne d’amore oggi possiamo affermare che l’amore è una via verso l’individuazione e quindi anche verso la guarigione?
Risposta: Un proverbio ebraico dice «Non adagiarti sulla tua intelligenza; cercati un buon maestro». La mia vita è stata costellata dall’incontro con alcuni grandi maestri. Paradossalmente, per me psicologo, erano tutti laureati in Medicina, tre erano psichiatri. Devo ricordare, prima di Alberoni, Silvano Arieti, Luigi Anepeta, Filippo Ferro. L’incontro con Francesco Alberoni – per me innanzitutto un amico con cui lo scambio affettivo non è minore rispetto a quello intellettuale – mi ha risvegliato alla coscienza che spesso i grandi pensatori sono accanto a noi e li trascuriamo. L’idea di Alberoni dello stato nascente è estremamente utile per capire, in psicoterapia, la necessità che i due partecipanti alla coppia terapeutica fondano parti delle loro vite e creino un linguaggio comune, privato e rivoluzionario allo stesso tempo, estraneo alla vicenda collettiva.
La psicoterapia come io la pratico non risponde ad una teoria oggettiva che viene applicata, mediante un modello operativo, al paziente inteso come soggetto passivo di ricezione cognitiva. Io lavoro sempre più in un senso intersoggettivo: sto attento a cosa io provo per il mio paziente e quindi a cosa lui prova per me; a ciò che riusciamo a costruire come idioma del rapporto; al fatto che ogni passo avanti o indietro dipende da entrambi e evoca più il concetto di alleanza, o di amicizia (la eutrapeleia degli antichi) o persino di amore (umano e clinico), che non quello di addestramento, insegnamento, indottrinamento. In ciò mi rivolgo ad autori geniali e traditi dalla Storia come Sàndor Ferenczi, Ronald D. Laing, Silvano Arieti, Masud Khan, Margaret Little, o ai moderni psicoanalisti intersoggettivisti, che hanno saputo difendere le loro posizioni senza essere fatti a pezzi dall’establishment: Schore, Bromberg, Tronick e altri.
IV – Psicoterapia dialettica e storia sociale
Domanda: Esaminiamo il confine, sempre molto incerto, tra normale e patologico prendendo in esame le nuove direzioni intraprese dalla psichiatria. Nella Psicopatologia generale (1913) di K. Jaspers, la cui attività di psichiatra precede quella di filosofo esistenzialista, assistiamo alla critica delle interpretazioni organiciste della malattia mentale (non c’è il “bacillo della follia”, né una base neurofisiologica), nonché alla critica di un modello di “spiegazione” oggettivante: oggetto della psicopatologia non è una malattia, ma un individuo la cui esperienza va “compresa”, un portatore di un progetto di esistenza la cui “incomprensibilità” va sondata come cosa non estranea. In uno dei suoi ultimi libri “Ricordati di rinascere” Lei indica una via da percorrere per l’uomo in crisi. Cito: “l’uomo in crisi deve riuscire ad ammettere che la sua paralisi, per quanto possa apparire terribile, non è definitiva, non è uno scacco permanente, ma che al contrario essa indica la possibilità di un percorso: di fatto, lo pone in uno “stato storico” (quello indicato da Heidegger, 1961), cioè transitorio, mosso da una ricerca e da una direzione. Perdere il significato della vita è dunque, il presupposto per trovarne uno.” Lei assume una posizione dialettica rispetto all’approccio alla malattia o allo stato transitorio di trasformazione in cui essa proietta l’individuo, ci può spiegare brevemente, in termini non troppo tecnici, cosa significa? Cos’è la Psicoterapia dialettica?
Risposta: Dialettica in senso psicologico è dualità dei sistemi motivazionali (di integrazione sociale e di individuazione) quindi anche avvicendamento di stati della personalità nel corso del tempo; e allo stesso tempo messa in dialogo di questi stati grazie alla mediazione di un altro (il singolo individuo, il terapeuta) e con l’Altro (la mente sociale).
Jaspers, come Lei ricorda, ci insegna che la “spiegazione” scientifica – se pure coglie il bersaglio – non riesce a “comprendere”, quindi a “guarire” lo stato di malattia della persona. Egli rappresenta perfettamente l’uomo colto che ignora il dato e il significato sociale della follia e a vede in essa la sola valenza simbolica. Ma l’unico modo per guarire è essere di nuovo messi nella condizione di partecipare alla vicenda umana, ossia uscire da un’esistenza isolata e malata, che agli altri appare come puramente simbolica, per rientrare nella storia come parte attiva del cambiamento (nel micro- come nel macro-mondo). Poiché la malattia psichica, dai suoi livelli minimi a quelli massimi, è auto-esclusione del soggetto umano dalla comunicazione pragmatica e simbolica con gli altri esseri umani, la guarigione non può consistere in altro che nella sua reintegrazione.
La psicoterapia come io e altri la intendiamo è la cellula iniziale di questa reintegrazione laddove tutti gli altri rapporti hanno fallito. Dialettica è capire che la scissione di stati della personalità è intrinseca a ciascuno di noi, non solo ai disagiati, e che il conflitto intrapsichico ci caratterizza tutti; quindi che la psicoterapia è arte della relazione nella quale il terapeuta rispecchia in se stesso gli stati dissociati del paziente per restituirglieli in uno spazio e in un idioma condiviso.
Partendo da una citazione di Laing a pag. 32 del suo “Passioni psicotiche, progetti oppositivi e crisi dell’identità” che dice :
ci potrebbe spiegare in che modo una crisi (per crisi si intende una incrinatura del nostro io ndr) può rivelarsi uno strumento di crescita per il singolo individuo ma anche un campanello di allarme che ci indirizza verso una disfunzione più grande che coinvolge la società? Scriveva Alda Merini in Diario di una diversa, L’altra verità: “Perché la pazzia, amici miei, non esiste. Esiste soltanto nei riflessi onirici del sonno e in quel terrore che abbiamo tutti, inveterato, di perdere la nostra ragione.”
Come si sente di commentare questa citazione?2
Risposta: Voglio precisare, innanzitutto, che la mia non è una posizione antipsichiatrica ingenua. Non credo che una crisi psicotica sia di per se stessa una forma di rivoluzione. Credo però che la crisi sia il fenomeno emergente di una diversità genetica e neurobiologica che l’ambiente sociale non ha saputo (e voluto) valorizzare. Chi scivola nella psicosi, non vi era predestinato. Era un individuo con singolarità che non sono state capite per tempo e valorizzate. Se lo fossero state avrebbero assunto una forte valenza critica, quindi dialettica.
In ciascuno di noi possono sorgere sensazioni, sentimenti, idee in più o meno radicale contrasto con il nostro ambiente affettivo e valoriale circostante e, se la nostra sensibilità è abbastanza profonda, anche con l’ambiente umano di un’intera epoca. Ciò può accadere in un bambino che percepisce e soffre delle contraddizioni emotive della madre, delle sue ambivalenze, ma anche in un adulto che constata la mostruosità dell’uomo che crea i campi di concentramento. Sia quel bambino che quell’adulto, se non riescono a contenere nella loro coscienza la contraddizione di cui sono testimoni, e a fare di esse oggetto di commozione, pathos, poesia, politica o altro, cioè simbolo, devono rimuovere la parte perturbatrice della propria conoscenza implicita e con ciò dare l’avvio a una scissione e a un possibile psicopatologia. Ciò può accadere al bambino piccolo che la cui mente deve scindere nello stesso aggregato i ricordi della madre come persona affidabile da quelli della madre come persona inaffidabile (abbandonica, aggressiva, depressa ecc.); e accade allo stesso titolo nell’adulto che può non tenere a mente il fastidio che prova per una certa morale familiare o per l’antropologia di un’intera religione o nazione (cui pure appartiene).
La scissione e rimozione comporta sempre il rischio che quanto scisso e rimosso dall’Io ordinario rientri in forma antitetica, opposta, nel comportamento o nella vita psichica implicita soggettiva, con forti valenze di perturbazione. La funzione di uno psicoterapeuta, se è un professionista avveduto, può fornire i giusti simboli, in forma di affetto o di parole, atti a dare forma cosciente e utilizzabile alle percezioni rimosse. E poiché queste percezioni prima implicite e poi coscienti sono critiche di un certo modo di comporre le relazioni umane e le stesse strutture sociali, ecco che la psicoterapia e la guarigione che può conseguirne donano una nuova ricchezza al mondo.
V – Sensibilità e iperfunzioni psichiche
Domanda: Nel suo libro del 2002 Volersi male. Masochismo, panico, depressione. Il senso di colpa e le radici della sofferenza psichica si legge “Alcuni di noi, più di altri, sono dotati di quel singolare tratto psicologico che è la sensibilità. Qualità tipicamente umana, da sempre elogiata da psicologi e filosofi, essa dovrebbe costituire la via ottimale per raggiungere il benessere. Spesso, tuttavia, non è così: quanto più un individuo è dotato di sensibilità, tanto più può andare incontro ad ansie, dubbi, conflitti; non di rado fino a scivolare in una qualche forma di psicopatologia.” La sensibilità è una di quelle caratteristiche che ci differenzia e ci mette in atteggiamento di contrapposizione con la società, spesso una persona sensibile o dotata di certe caratteristiche che lei riunisce sotto il nome di iper-dotazioni psichiche, è considerata un diverso.
Ho letto proprio qualche giorno fa un articolo in cui lo scrittore Malidoma Patrice Somé (a proposito di alterità Malidoma significa “amico dello straniero” ndr) ci offre un interessante punto di vista spiegando che secondo gli sciamani la malattia mentale simboleggia la “nascita di un guaritore”. I disturbi mentali sarebbero quindi emergenze o crisi spirituali e devono essere prese in considerazione come tali per aiutare il guaritore a “nascere”. Senza prendere in esame la rilevanza spirituale, che è più o meno interessante a seconda della situazione storico-geografica in cui ci si trova, qui è interessante constatare come, nelle altre civiltà, viene visto il disturbo mentale. Questa visione in qualche modo ha dei punti di contatto con la sua. Ricordiamo che lei è anche il fondatore dell’Associazione per lo Studio delle Iperdotazioni Psichiche nata allo scopo di approfondire e divulgare una nuova concezione della psiche e del disagio psichico. Ci può spiegare cosa si intende per iperdotazione psichica e quanto un rapporto disfunzionale con il mondo esterno può danneggiare una personalità così dotata?3
Risposta: Le società monoteistiche – oggi non solo quella ebraica, cristiana e islamica, ma anche l’economicismo capitalista – hanno messo al bando la nozione e l’esperienza della trascendenza. Come ho già detto, le figure di mediazione con il mondo trascendente, che un tempo era solo il mondo mistico del sacro, mostrano, con la loro azione, l’ambiguità del reale. Il divino fa irruzione nel mondo temporale per modificarne le strutture. Un tempo si parlava di rivelazione, ossia di un messaggio trascendente inteso a illuminare le menti dei vivi e portarle a una nuova forma di coscienza. Il fenomeno del misticismo trascendente ha avuto la sua massima esplosione nelle religioni politeistiche, perché in queste nessuna verità era assoluta, potendo essere contraddetta da un’altra: ogni dio ne aveva una sua, anche opposta a quella di un altro dio. Il guaritore delle civiltà politeiste era colui che aveva scoperto la sua via personale di accesso al sacro e di inserimento personale in un ordine superiore, intitolata a una esperienza del misticismo che partiva dal suo essere un soggetto individuale. Nelle religioni monoteistiche, questa funzione ambigua della mistica è venuta meno perché ha preso il sopravvento quella lineare della rivelazione dell’unica verità possibile. Da questo momento, con l’avvento delle religioni monoteistiche, il veggente media una verità al di là della quale c’è solo l’abisso dell’errore, della colpa, della follia.
L’individuo con una ricca dotazione neurologica ha un accesso più diretto all’inconscio di quanto non accada ai normodotati. L’inconscio – dunque l’invisibile – è per noi ciò che per altre culture ed altre epoche era il sacro. L’inconscio – ossia ciò che la mente cosciente non può contenere, essendo stata formata da un contesto normativo, quindi limitato – ricombina l’esistente e ne rivela i limiti. Oggi poiché la sacralità dell’invisibile è scomparsa, l’individuo iperfunzionale, IF, può tuttalpiù sperare di diventare un artista o uno scienziato o una persona con una riconosciuta esperienza di vita. Egli può “finire male”, cioè sviluppare un disagio più o meno grave, proprio a causa della sua intelligenza divergente; oppure può diventare un agente di innovazione e cambiamento. Ma deve sapere che, non essendo protetto da una dimensione sacra, cioè da una cultura che lo accetti nella sua specificità contempli, la sua sarà una lotta impari.
“Del resto ero poeta”, scrive Alda Merini nella prima pagina del suo L’altra verità. Diario di una diversa – a evidenziare, anzitutto, la sua più vera, peculiare condizione, forte della consapevolezza di una diversità originaria, di una più acuta sensibilità, di una profondità di sguardo non comune, di una capacità visionaria quasi mistica. Lei che si interessa e si è interessato di letteratura, ha la passione per la poesia, ha curato lo scorso anno l’introduzione all’ultima raccolta postuma della poeta Maria Marchesi “Non sono più mia”, che relazione ha individuato- se relazione c’è- tra poesia e malattia psichiatrica? Il poeta che sperimenta la follia entra con la poesia in una sorta di catabasi, di discesa entro di sé e riemerge attraverso la parola arricchito di una visione? Oppure la poesia ha un peso specifico, una responsabilità mai del tutto riconosciuta, che lo emargina ulteriormente dalla società? Si può dire la poesia un linguaggio libero, o comunque meno rigido, attraverso cui trovare un antidoto alla crisi dell’uomo moderno rivendicando, anche oggi, come Rimbaud il Je est un autre della lettera del Veggente?4
Risposta: in effetti, non vorrei essere proprio io, che ho rispetto sia per il poeta che per il malato, ad avallare la vecchia retorica che mette insieme “genio & follia”. Non c’è un rapporto diretto fra queste due realtà. Accade però che colui che sente e pensa in modo complesso possa sviluppare un disagio psicologico più facilmente di chi pensa in modo lineare e oggettivo. Il poeta lavora sulla metafora, cioè sulla moltiplicazione dei sensi insiti non solo in una esperienza o in una scena, ma in una stessa parola. La stessa parola, come la realtà che rappresenta, è polisemica, cioè occulta una quantità infinita di significati. Il lavoro sul significato è anche lavoro sul senso e il valore della vita, quindi destabilizza: mette in contrasto quelle due dimensioni della mente che chiamo l’ordinario e l’antitetico. Ma a differenza di colui che sta male nella mente, il poeta regge la contraddizione, affronta il paradosso ed è proprio da questa sua capacità di contenere gli opposti e di mediarli senza necessariamente abolirli che fa nascere la sua opera creativa.
VI -Libertà e necessità
Domanda: Sempre in Passioni psicotiche la sua indagine termina con una riflessione che non può lasciare indifferenti: “Questo è, a mio avviso, il senso ultimo, e l’unico realmente necessario della teoria dei bisogni. Il cuore della teoria dei bisogni consiste nella consapevolezza che l’uomo nonché amare ed essere amato può altresì crescere e promuovere il proprio Sé unicamente nella dimensione concreta, storico-sociale, dei rapporti umani. Perché ciò sia possibile, gli ideali dell’Io di cui il soggetto fa uso per vivere e agire devono, dunque, consentire il contatto e la relazione con l’altro in un regime nel contempo libero e morale, un regime, cioè, che non evochi né l’angoscia d’essere asserviti e annientati, né quella, speculare, di asservire e annientare le potenzialità e la ricchezza dell’altro essere umano”. In tutta franchezza Lei si sente di poter affermare che l’uomo moderno, e in particolare la persona affetta da patologie o crisi di identità gode la possibilità di agire in un regime libero e morale?
Risposta: La malattia è esattamente questo: assenza di libertà. Quindi non può per definizione agire in un regime libero e morale. La malattia stessa glielo impedisce: è la sua gabbia, che ripropone l’ordine violato nei termini di una riparazione o di una condanna inappellabile. Ma forse questo vale anche per la normalità, nella misura in cui si si riconosce in assiomi morali e cognitivi normativi.
L’uomo moderno è libero? E’ una domanda oziosa. Varrebbe, invariata, per ogni epoca. La libertà è la conoscenza della necessità, diceva Hegel, e io lo sottoscrivo. Creatività non è sinonimo di libertà perché potrebbe anche essere caos. L’uomo di qualunque epoca è tenuto a sapere qual è la partita che è chiamato a giocare e quindi quali sono le regole che la rendono possibile. Al di là di queste regole c’è solo il fatuo narcisismo della libertà assoluta e della coscienza infelice. Come uomini moderni, vogliamo essere edotti sulle regole del gioco.
Domanda: Dottor Ghezzani la ringrazio nuovamente per avermi voluto accordare la sua fiducia e per la ricerca che la vede impegnato non solo come professionista ma anche come uomo e come scrittore attento a una comunicazione efficace e diretta con il lettore. Può salutarci con un suo pensiero personale sul tema dell’alterità?
Risposta: L’altro è quella parte estraniata di me stesso il cui mistero sfida e sollecita la mia sensibilità a somigliargli per integrarlo e arricchire la mia umanità. Purché egli non voglia essere il mio Nemico, ossia colui la cui presenza mi distrugge, l’altro è la fonte di ogni progresso umano.