I due bisogni fondamentali
Due vettori, due bisogni
La psiche umana non segue mai un andamento lineare, sembra piuttosto coinvolta in processi dinamici fluidi, oscillanti, ondultari, talvolta mostra brusche dualità e stati che appaiono caotici. Il paesaggio psichico somiglia più all’alterno fluire delle onde su una spiaggia e alla brusca comparsa di tempeste che modificano il profilo della costa, che a uno statico deserto di pietra o a un profilo montuoso immobilizzato nelle ere geologiche. In quanto esseri umani, noi abbiamo costantemente dubbi che ci attanagliano; emozioni contrastanti si contendono la nostra anima; in uno stesso giorno e con la stessa persona possiamo contraddirci più volte. Un bambino fa e disfa un castello di sabbia; un ragazzo ama i suoi genitori, ma mentre si intrattiene con la sua ragazza parla male di loro; un artista crea un movimento, poi lo nega e ne fonda un altro; un uomo sogna una carriera e ne percorre un’altra; una donna sposa un uomo mentre è innamorata di un altro. La dualità compone la nostra vita, struttura il nostro Io. La figura geometrica e matematica che più si avvicina a descrivere la dinamica di questo stato è quella di due o più vettori che si incontrano, si scontrano e si fondono in un volume che li contiene. Qualcosa di simile a due correnti d’acqua che s’incontrano in un bacino creando vortici e mulinelli. Ho chiamato queste forze vettori psicobiologici e, in termini più colloquiali – seguendo il suggerimento di Luigi Anepeta – bisogni fondamentali.
Posta la nostra intrinseca ambivalenza e contraddittorietà, appare evidente che nella psiche devono essere presenti (al di là delle istanze psichiche descritte dalla psicologia dinamica) dei sistemi biologici, neurobiologici e psicobiologici che determinano sia le tendenze della personalità che i suoi conflitti. Chiamiamo dunque bisogni queste tendenze psicobiologiche: bisogni piuttosto che istinti e pulsioni perché, benché di origine organica, essi vengono codificati socialmente; bisogni e non semplicemente codici perché, pur essendo organizzati cognitivamente nel rapporto col mondo sociale, essi poggiano su una base biologica che si esprime nella psiche come emozione e come affetto.
Abbiamo chiamato bisogno di appartenenza/integrazione sociale con la correlata forma affettiva sistemica (o superegoica) quella tendenza psicobiologica a sentire e vivere la propria esistenza non come un’esistenza singola, bensì come fusa in una unità sistemica con l’Altro. Sentire e vivere attraverso il bisogno di appartenenza e la forma affettiva sistemica comporta un sentimento basilare di empatica armonia, dissolvere il quale è associato – in modo automatico, dunque filogenetico – a un senso di mancanza, di insufficienza, di perdita. Tale sentimento può sfociare nel senso di colpa laddove l’Io si senta responsabile della scissione dell’unità.
Abbiamo chiamato bisogno di opposizione/individuazione con la correlata forma affettiva individuale (o egoica) quella tendenza psicobiologica a sentire e vivere la propria individualità nei termini di una identità sussistente in modo assoluto in se stessa e per se stessa, dissociata da qualsiasi vincolo con alcunché. Sentire e vivere attraverso il bisogno di individuazione e la forma affettiva individuale comporta un sentimento di imprescindibile autonomia, minacciare il quale produce al limite minimo vergogna sociale e angoscia di asservimento, al massimo angoscia e/o panico di dissoluzione.
Nel loro punto di maggiore integrazione, queste tendenze psicobiologiche possono coesistere in piena sinergia fino divenire una sola cosa: si producono allora stati mentali (e psicosomatici) nei quali si perdono le distinzioni dentro/fuori, io/altro, me/non-me, qui/là, ora/non-ora, mente/corpo ecc., distinzioni necessarie all’articolazione dei due bisogni. A questo punto, se la coscienza è in grado di accoglierlo, si esperisce il piacevole sentimento di una armonica unione accompagnata da una piena e autosufficiente libertà.
Antropologia, biologia e psicologia
A considerazioni simili sono pervenuti tutti quegli studiosi che hanno inteso superare l’idea che homo sapiens sia una specie dotata di istinti come ogni altro animale. L’uomo è un animale con un corredo istintuale ridotto al minimo, tanto da poterci apparire carente. Nonché difetto, questa carenza è in realtà il pregio evoluzionistico dell’uomo, perché l’allentamento istintuale ha prodotto quella lunga fase di dipendenza immatura che abbiamo classificato come infanzia e adolescenza, e questa a sua volta ha reso possibile l’apprendimento. L’uomo è un animale che apprende, integra gli apprendimenti in forme tramandate oppure nuove e, creando nuove strutture mentali (idee, sentimenti, fantasie…), muta: muta i circuiti neurali, muta le architetture che li supportano, muta il cervello, infine muta anche il corpo.
La visione di un uomo istintuale, difesa ancora da Freud, era stata già abbattuta da Darwin, che aveva descritto le emozioni e i sentimenti – non gli istinti – come tratto specie-specifico della natura umana. Come sostiene Arnold Gehlen (L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Feltrinelli, Milano, 1990), il passaggio dai primati superiori all’uomo avviene sulla base di un radicale allentamento degli schemi istintuali, tal che il singolo individuo umano, se isolato dal gruppo, non avrebbe alcuna possibilità di sopravvivenza.
L’antropogenesi, ossia la differenziazione fisica e psichica della specie homo dagli altri primati, si realizza sulla base di una intuitiva e diffusa consapevolezza della precarietà e della finitezza individuale. Questa consapevolezza – che cogliamo in ciascun individuo come coscienza– è pressoché assente o appena embrionale negli altri animali, e fa dell’uomo un essere tanto consapevole dell’”Io” quanto del “Noi”. L’uomo è un singolare essere che partecipa della durata della coscienza collettivae ne promuove la persistenza, per poter egli stesso durare: e in questa tensione alla persistenza si realizzano le sue due potenze fondamentali: l’amore e l’individuazione. La socialità di ciascun individuo è pertanto vincolata all’intuizione di un destino comune, non solo fisico, ma anche – e direi soprattutto – coscienziale, transpersonale, culturale.
La creazione di unità umane coese potrebbe appiattire la singola individualità su uno sfondo psichico indifferenziato, con svantaggi a carico della stessa evoluzione della specie. Pertanto il bisogno di integrazione sociale trova il suo limite nel bisogno complementare, di opposizione/ individuazione, la cui funzione è impedire una assimilazione culturale totale degli individui.
Come sappiamo, il concetto di individuazione non è nuovo. Il termine è in origine aristotelico, ma il merito di averlo integrato in psicologia è interamente di Carl Gustav Jung. Nelle parole di Jung, l’individuazione è «il processo di formazione e di particolarizzazione dell’individuo, in particolare dell’individuo psicologico come essere distinto dall’insieme, dalla psicologia collettiva» (C. G. Jung, 1921, Tipi psicologici, Newton Compton, Roma 1973, p. 419). L’individuazione «è dunque un processo di differenziazione che ha per scopo lo sviluppo della personalità individuale ed è una necessità naturale» (ibid. p. 419). Infine: «l’individuo, l’individualità psicologica, esiste inconsciamente a priori […] Per rendere conscia l’individualità […] è necessario un processo conscio di differenziazione, cioè l’individuazione» (ibid. p. 421) .
Jung è consapevole che il processo di individuazione può avvenire solo in forma dialettica. Esso può realizzarsi solo in quanto esiste una preliminare interiorizzazione delle norme collettive, le quali fanno sì che l’individuo sia un membro integrato della sua comunità. Con grande precisione analitica, egli osserva: «L’individuazione non può mai costituire l’unico scopo dell’educazione psicologica; l’educazione, prima di avere come scopo l’individuazione, deve averne raggiunto un altro: l’adattamento al minimo di regole collettive necessario all’esistenza […] L’individuazione è sempre più o meno in opposizione con la norma collettiva, perché è separazione e differenziazione dall’insieme, formazione dell’originalità, non di un’originalità ricercata, ma di quella che è data a priori nella disposizione del soggetto» (op. cit., p. 420).
Quindi, non solo Jung individua la tendenza a integrarsi nel contesto sociale, ma anche quella a differenziarsi, attribuendo quest’ultima a una disposizione biologica innata. L’unico punto debole che si può attribuire a questa lapidaria concettualizzazione è che, posta la necessità “politica” di differenziare il suo sistema da quello freudiano, Jung trascura una delle intuizioni più geniali e fruttuose di Freud: il Super-io. Pertanto, non riesce a formalizzare un sistema semplice e coerente che descriva come la differenziazione avvenga attraverso la formazione di un’istanza speculare rispetto al Super-io. Egli parla con chiarezza di opposizione e differenziazione, ma come se il processo non aggregasse funzioni psichiche differenziate. Questa funzione di differenziazione noi l’abbiamo chiamata funzione antitetica, quindi Io antitetico.
Jung definisce la differenziazione come una necessità naturale, iscritta nella disposizione soggettiva, dunque – aggiungeremmo noi – nel suo DNA, ma non spiega come essa possa realizzarsi a partire dal primato che la collettività ha sull’individuo. Non lo può, perché misconosce che tale primato si realizza a livello inconscio attraverso il Super-Io. Il concetto di Inconscio Collettivo e l’archetipo della Persona (la Maschera) non bastano a spiegare la complessità e la radicalità del processo di acculturazione del singolo individuo; o se lo fanno, lo fanno in modo piuttosto vago.
Noi oggi alle speculazioni psicologiche possiamo aggiungere i dati della scienza biologica. Sappiamo ormai, grazie all’evoluzionismo, che al di là di un certo livello di sviluppo, cioè col passaggio dagli organismi unicellulari a quelli pluricellulari, la natura promuove la varietà individuale. Più le specie, grazie a un principio di mutazione perpetua, producono varietà individuale, più aumenta il loro coefficiente di adattabilità. Il carattere distintivo di una specie è dato dai geni che assicurano a tutti i membri caratteri morfologici e comportamentali comuni e da altri geni che promuovono, interagendo con l’ambiente, la differenziazione degli individui. In ogni specie c’è un pacchetto di geni a bassissima entropia, ciò che non mutano, e un altro pacchetto destinato a indurre mutazioni, vincolate tuttavia da geni morforegolatori che ne limitano la trasformazione.
Lo stesso accade coi cervelli umani. Ogni cervello (compreso quello dei gemelli omozigoti) è unico e irripetibile, poiché riconosce una scultura sinaptica diversa rispetto a tutti gli altri. Il grado massimo di variazione intraspecifica, funzionale sia all’adattamento che all’evoluzione, la specie homo lo raggiunge grazie alle differenze cerebrali, quindi psichiche, fra gli individui. Il processo di individuazione scoperto da Jung non è altro che la dialettica evoluzionista fra comunità genetica e differenza individuale.
L’intuizione dei due bisogni nella psicologia psicopatologica
È quantomeno curioso constatare che molte di queste intuizioni risultano già contenute negli appunti di diario di un originale psicoanalista ungherese di Budapest: Sàndor Ferenczi, e già dal 1932. Stralcio alcuni brani. Ecco una postulazione teorica nitida e senza equivoci:
La scissione in due personalità, che non vogliono sapere nulla l’una dell’altra e che sono raggruppate intorno a tendenze diverse, realizza l’economia del conflitto soggettivo (Ferenczi S., 1932, Diario clinico, 1989, p. 94).
Nonostante tutto, non è completamente irragionevole sostenere il punto di vista del dualismo; gli infiniti esempi di bipolarità, ambivalenza e ambi-tendenza rintracciabili ovunque sembrano giustificare il considerare l’insieme della natura non soltanto dal punto di vista del principio dell’egoismo, ma anche da quello dell’altruismo che proviene da una direzione pulsionale opposta. La prevalenza unilaterale del principio egoistico è sadismo; quella del voler soffrire è masochismo (ibid., pp. 98-99).
Nel 1932, dunque, Sàndor Ferenczi scardinava la teoria pulsionale del maestro Freud, incentrata sulla fallace idea di una base animale asociale (l’Es) e di una istanza di controllo (il Super-io) ereditata dalla tradizione culturale. Purtroppo, come già era accaduto a Jung, Ferenczi venne diffidato e calunniato dal gruppo dei freudiani più ortodossi. Legato alla “famiglia psicoanalitica” molto più di quanto non lo fosse Jung, ne fu addolorato e destabilizzato. Infine morì troppo presto, a 59 anni, per poter opporre le sue brillanti intuizioni alla teoria dominante. Nondimeno, dopo di lui, si mossero nella stessa direzione i suoi allievi, da Michael Balint a Imre Herman fino a Margaret Mahler.
Più di recente, il concetto di una natura umana dialettica, cioè sia individuale che sociale, una natura umana uniduale, è stato ripreso da altri teorici. Il più complesso fra questi è Ignatio Matte Blanco.
Per Matte Blanco esistono nella mente e nella cultura umana due forme di pensiero, una detta simmetrica, per la quale esiste solo l’unità indivisa priva di individualità distinte, e l’altra detta asimmetrica, per la quale esistono solo le distinte individualità, in relazioni autonome fra loro. Queste distinte individualità non sono nemmeno in grado di pensare e sentire l’unità indivisa.
Nella sua teoria, il modo di essere simmetrico è la radice fondamentale della socialità perché ciò che, a livello asimmetrico, è sentito tutt’al più come una cooperazione tra individui o un parteggiare insieme o un essere insieme è, invece, ad un livello simmetrico, una vera unità in cui gli individui non sono separati e distinguibili l’uno dall’altro.
In quanto siamo esseri simmetrici non siamo indipendenti dagli altri poiché siamo un’unità con gli altri. Per l’essere asimmetrico, quest’assenza di limiti individuali è inconcepibile… Questo contrasto tra i due modi di essere costituirebbe la fonte più profonda di conflitto (Matte Blanco, 1975).
Psicologia dialettica
L’elaborazione più completa ed esaustiva di questi aspetti della psiche e del pensiero nei termini di tensioni psicobiologiche, cioè di bisogni, è di Luigi Anepeta, il quale ha scritto:
Il bisogno di integrazione sociale [è] bisogno di appartenere, sia pure formalmente, ad un gruppo umano e di esserne confermato. […]
È logicamente ipotizzabile che la plasticità educativa della natura umana, dovuta al bisogno di integrazione sociale, riconosca un limite intrinseco, biologicamente connotato esso stesso, atto a scongiurare che quel bisogno promuova una fenotipizzazione culturale omogenea. […] Tale limite, geneticamente intrinseco alla natura umana, può essere definito [anch’esso] come bisogno, il bisogno di opposizione, il cui fine è di promuovere una differenziazione dell’identità personale e l’acquisizione progressiva di un potere critico in rapporto alla realtà (Anepeta L., La politica del Super-io, Armando, Roma, 1992, pp. 35-37).
In linea con questa impostazione teorica, espressi il mio punto di vista sin dal mio primo libro, Passioni psicotiche(1998), il cui primo capitolo delinea i fondamenti teorici su cui si muove la mia pratica. I due bisogni fondamentali vi sono descritti, appunto, come bisogno di appartenenza/integrazione sociale e come bisogno di opposizione/individuazione. Per l’esattezza, dico, fra l’altro:
- a) Il bisogno di integrazione sociale è il più arcaico e basilare, perché implicato nei processi di identificazione primaria e di appartenenza culturale. La dipendenza dell’uomo dal legame con l’altro essere umano […] fornisce alle società umane e agli stessi individui un potenziale di annullamento e autoannullamento in funzione del perpetuamento del sistema sociale e della partecipazione.
- b) Il bisogno di opposizione/individuazione è “anaclitico” rispetto al primo; ha cioè bisogno della relativa soddisfazione del primo per potersi manifestare, a causa della sua minor rilevanza ai fini della sopravvivenza. Esso tuttavia, nel corso dello sviluppo psicobiologico [e, aggiungerei, storico-sociale], è destinato ad assumere importanza almeno pari al bisogno complementare. […] Se drammatizzato nelle varie interazioni sociali, a cominciare da quelle del piccolo con gli adulti, il bisogno di opposizione/individuazione perde in parte o in tutto il suo carattere funzionale fino a degradare in forme le più varie di patologia (Ghezzani N.,Passioni psicotiche, Melusina, Roma, 1998, pp. 40-41).
Il bisogno di individuazione, cioè quella spinta neuropsicologica per la quale l’individuo generico si trasforma gradualmente in una persona distinta dagli altri e dotata di autonomia morale, assume nel corso dello sviluppo psicobiologico individuale e nel corso della filogenesi, cioè della storia evolutiva dell’umanità, un carattere preminente. Perché? Semplicemente perché molte persone distinte le une dalle altre offrono una variabilità di modelli di comportamento maggiore rispetto a quelli di una folla anonima e indifferenziata. E alla specie umana interessa disporre di molti comportamenti diversi per potenziare le sue capacità adattive e di sopravvivenza.
La specie tuttavia non è né lungimirante né illuminata. Essa varia le individualità come varia i corredi genetici, cioè casualmente, ciecamente, e produce appunto casualmente, ciecamente, individui sensibili e individui meno sensibili. La variabilità dei sistemi culturali e dei cervelli individuali può pertanto spingere le culture e la specie nel suo complesso in diverse direzioni: nella direzione di un altruismo sacrificale che si spende all’interno della propria comunità; nella direzione di un maggiore egoismo e di una maggiore distruttività interpersonale e globale: o anche nella direzione di una più elevata coscienza morale, socializzata, ma pur sempre critica.
Le società in genere, tuttavia – preoccupate della stabilità, cioè di perpetuare l’ordine del sistema –, finiscono per drammatizzare la ricca variazione individuale interpretandola univocamente come un potenziale egoistico e distruttivo o semplicemente inadatto alla vita sociale. Esse, in realtà, non diffidano tanto dell’egoismo (che può essere del tutto funzionale a un sistema competitivo e individualistico), né della mera inadeguatezza (che può essere utilizzata in termini ideologici, cioè come esempio negativo buono per confermare l’esistente); esse diffidano piuttosto del potenziale morale critico, perché questo mira sempre ad una trasformazione dell’esistente in funzione dei bisogni emergenti.
In sintesi: la variabilità individuale – quindi la differente dotazione genetica individuale – che induce un diverso modellamento dei cervelli, pur essendo la qualità emergente dell’uomo, pone sempre in allarme le agenzie di accudimento e socializzazione, cioè le famiglie e le società. A nostro avviso si tratta di un allarme eccessivo e spesso dannoso. Il nostro punto di vista è che la dialettica fra identità culturale e variabilità individuale – la neurodiversità– rappresenti lo sforzo che la specie homo compie per affrontare le sue maggiori sfide evolutive.
Bibliografia dell’autore
Anepeta L., La politica del Super-io, Armando, Roma, 1992.
Ferenczi S., 1932, Diario clinico, Raffaello Cortina, 1989, Milano.
Gehlen A., 1940, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Feltrinelli, Milano, 1990.
Ghezzani N., Passioni psicotiche, Melusina, Roma, 1998.
Jung C. G., 1921, Tipi psicologici, Newton Compton, Roma 1973.
Matte Blanco I., L’inconscio come insiemi infiniti, Einaudi, Torino, 1975.
Nicola Ghezzani
Psicologo clinico, psicoterapeuta
formatore alla psicoterapia
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