Intervista su sensibilità, iperdotazioni e disagio psichico
Intervista tratta dal giornale Unione Sarda del 9 giugno 2008
«Vi svelo cos’è il male di vivere»
Perché oggi l’ansia è una pandemia?
Parla Nicola Ghezzani, psicoterapeuta
Un concetto che scardina: il depresso è un individuo iperdotato in termini di sensibilità e di riflessività. Basta con l’idea diffusa che chi soffre nella psiche sia una persona con carenze psicologiche o organiche. Anzi, secondo il professor Nicola Ghezzani, è vero l’esatto contrario. Come spiega nel suo ultimo libro La logica dell’ansia (edito da Franco Angeli) l’iperfunzionalità psichica è tale da riportare in vita personalità intense sul piano della sensibilità, creatività e della morale.
Un testo che raccoglie oltre quindici anni di attività clinica e di ricerche, iniziate con la formulazione, insieme a Luigi Anepeta, della psicopatologia struttural-dialettica e delle tesi di psicoterapia dialettica. Un approccio rivoluzionario alla moderna pandemia dei disturbi di ansia, degli attacchi di panico, della depressione.
Giuseppe Cadeddu: Da malati a iperdotati. Possibile?
Nicola Ghezzani: Grazie all’esperienza clinica mia e di molti miei colleghi ho potuto verificare che chi si ammala nella mente è stato calunniato per decenni. Gli è stato raccontato che è una persona deficitaria su un piano genetico. La mia tesi ribalta questo assunto: si tratta il più delle volte di persone di alta sensibilità, che hanno appreso sin da bambini a “sentire” l’ambiente intorno a loro con una vividezza fuori del comune. Avendo interiorizzato il malessere ambientale, vorrebbero dare e darsi una soluzione a quel disagio. Ma spesso la soluzione implica delle scelte difficili, che coinvolgono massicci sensi di colpa, e a questo punto il disagio si struttura, si fissa nella personalità.
Chi ammala nella psiche ha caratteri genetici diversi dagli altri, ma non nel senso dell’inferiorità, bensì nel senso di una curiosa superiorità.
GC: Una tesi rivoluzionaria…
NG: Dirò di più: le persone che stanno male, rappresentano il tentativo che la specie umana sta effettuando per superare una fase storica critica, lo sforzo dell’umanità per ricostruire la rete affettiva e simbolica di cui ha bisogno. L’abisso di egoismo e di inaccessibilità nella quale ci siamo rifugiati equivale, per la specie umana, alla morte. Molte delle persone migliori che noi conosciamo – scienziati, medici, ricercatori, volontari, artisti, filosofi eccetera – sono di fatto persone che hanno sfiorato o hanno superato gravi difficoltà psichiche. Le loro biografie lo dimostrano. Se la malattia viene curata in profondità e risolta, il nevrotico, il più delle volte, si rivela una persona straordinaria.
GC: Una teoria che dà fastidio?
NG: Moltissimo. Infatti il mondo accademico mi ignora. È una tesi che smonta professionalità e prodotti creati sulla base della pretesa “minorità” degli ammalati. Il presupposto è che i disturbi della psiche non nascono da una base genetica disfunzionale – come invece afferma la psichiatria dei vari DSM – ma piuttosto da una sensibilità fuori del comune, da una capacità particolare nel cogliere le sfumature del reale e a mettersi in sintonia con esse, anche quando sono contraddittorie. È dalla contraddizione che nasce la sofferenza.
GC: Un addio anche alle terapie farmacologiche?
NG: La terapia farmacologica è necessaria quando il soggetto soffre a un livello tale da non poter più mettere in gioco le sue risorse naturali e quelle dell’ambiente umano. Ma non deve, neanche in questo caso, diventare l’unica chance. I prodotti industriali – come appunto i farmaci – se sostituiscono del tutto i rapporti umani contribuiscono a generare solitudine e infelicità.
GC: Perché certi disturbi sono endemici nell’Occidente moderno?
NG: L’idea che il modello occidentale sia il migliore dei mondi possibili è ottimistica fino al paradosso. La prima causa dell’ansia è oggi proprio il modello sociale occidentale, basato sulla prestazione e sulla competizione. Non c’è più nulla di stabile: le famiglie si compongono e si scompongono con incredibile rapidità, le coppie nascono e muoiono con un clic sul computer, i posti di lavoro sono precari. La seconda causa sta nel fatto che, per sentirci all’altezza, non esitiamo a diventare duri, egoisti, cattivi; a ripudiare i legami affettivi e parentali, avvertiti come un peso; a consumare droghe anestetiche, per resistere all’angoscia; a diventare aggressivi e litigiosi, per sentirci forti.
GC: Il male di vivere colpisce tutti senza distinzioni?
NG: L’ansia colpisce tutti, ma soprattutto e sempre di più gli individui di età produttiva. Spesso è il rapporto con la società, con il lavoro, con l’immagine sociale che si vorrebbe avere e dare, che induce dubbi su di sé e quindi ansie.
Nei bambini, anche piccoli, è collegata all’eccesso di richieste, spesso contraddittorie, da parte degli adulti. Nei ragazzi, può essere collegata all’idea di non essere all’altezza del gruppo dei pari, oppure di non essere in grado di adempiere ai compiti dell’età adulta che si avvicina. Da ciò spesso ricavano la sensazione che la vita – la vita adulta, la vita di tutti – non abbia senso: tanto vale rifiutarla subito e abbandonarsi all’isolamento – come fanno gli hikikomori – o alle droghe, all’alcol, alla velocità, al rischio.
Nelle donne, spesso, all’ansia sociale si somma l’ansia relativa alla propria desiderabilità femminile. Condizionate a diventare dure e forti esse scoprono di essere doppiamente conflittuali, oscillano fra momenti di sottomissione e di ribellione sentendosi così inadatte a stare con gli uomini e a gestire figli.
GC: Perché se certi disturbi sono una pandemia nei media se ne parla così poco?
NG: Si evita di approfondirne le cause perché allora si arriverebbe alla ovvia considerazione che se il nostro mondo fa ammalare ormai un terzo dei suoi figli di ansia, depressione, dipendenze, allora vuol dire che non è vero che è il migliore dei mondi possibili. Vuol dire che occorre rivedere i ritmi di sviluppo economico, il rispetto acritico delle caste professionali, in primis quella psichiatrica; l’ideologia individualistica, il valore assoluto del profitto.
GC: Ma cos’è la felicità? Un diritto o una chimera?
NG: La felicità, come la libertà, è la conoscenza della necessità. Devo sapere che cosa mi è davvero necessario e scartare l’inutile per essere libero e quindi felice. Io penso che ricco è colui che sa di avere, povero è colui che crede di non avere abbastanza. In quanto esseri umani, noi abbiamo bisogno degli altri esseri umani e di poco altro. Dobbiamo investire in rapporti umani, non in automobili più grosse e potenti.
GC: Sono mali della solitudine?
NG: La solitudine esistenziale non aiuta a uscirne. Per questo è importante relazionarsi con altri. I gruppi di relazione aiutano a capire che non si è soli, che il disturbo è comune e che si può guarire grazie alla funzione terapeutica della socialità umana e di una professionalità umana. Se i rapporti sono sinceri e leali, si crea una rete di amore e di solidarietà più forte dello sfruttamento della sofferenza.
GC: Cosa distingue un terapeuta buono da uno che non lo è?
NG: L’amore.
Nicola Ghezzani
Psicologo clinico, psicoterapeuta
formatore alla psicoterapia
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