Jan Vermeer
L’amore triste del Nord
Geometria della ragione borghese
Nei quadri di Vermeer sono sempre le donne, mai gli uomini, a guardarci negli occhi. E lo fanno con occhi silenziosi, morbidi, a volte tristi. Gettano il loro sguardo al di là della scena di cui sono prigioniere; anzi al di là della stessa tela che le inquadra, e fissano il pubblico col silenzio della loro anima in attesa. A ben vedere il loro mistero sta in gran parte nell’impossibilità di svelare se stesse ed aprirsi alla parola prima che questa attesa (infinita) giunga al termine.
Il loro svelamento a se stesse e al mondo circostante e il relativo riconoscimento da parte degli altri resta in sospeso, congelato in una magica atmosfera, e la tristezza dei volti e dei corpi statici e inerti – la loro incantata e quasi mistica rassegnazione – deriva dalla consapevolezza di dovere vivere per sempre in questa impossibilità.
Gli uomini sono presi da se stessi, dalle azioni della vita pratica (gli affari, il commercio, la posizione sociale, la ricerca scientifica…) e, fra queste, come fosse un qualunque atto pratico, quella di trattare un contratto di matrimonio o di concupire un corpo. In verità, gli uomini di Vermeer sono troppo presi dal pragmatismo delle loro azioni per trasmettere altro che la loro compunta assenza di umanità.
Dobbiamo rendere a Jan Vermeer questo grande merito, di aver disegnato la geometria della ragione borghese in uno dei suoi punti di massima concentrazione, e di aver collocato al suo interno un’anima femminile imprigionata, serrata dai rigori delle convenzioni, e proprio per questo carica di un pathos intenso e commovente. Un pathos infinito quanto la sua misteriosa attesa, che non giungerà mai a termine.
Prendiamo in esame un’opera di Vermeer trentenne, già pittore maturo, intitolata Gentiluomo e signora al virginale (1662). In questa scena, che costituisce in qualche modo uno stadio avanzato della maturazione dell’artista, una ragazza è vista di spalle, prigioniera di mille riquadri: i marmi del pavimento, la spinetta, le due finestre, i dipinti incorniciati, lo schienale della sedia, lo specchio, persino la forma quadra dello schienale della sedia che fonde i due corpi separandoli tragicamente. Una viola (dalle forme femminili) è gettata per terra, nessuno la impugna, nessuno la suona. L’uomo, che le sta accanto impettito, fissa la donna con oggettiva indifferenza. Elegante, poggia un braccio sullo strumento e una mano sul pomo di un bastone. È un puritano e ascolta la musica della sua ospite (che forse intende sposare) pensando ad altro. Nello specchio il volto della ragazza è vago, quasi cancellato.
In questo quadro non ci guarda nessuno. La vita è assente.
La signora del virginale
Guardiamo ora quest’altra opera, che rappresenta la piena maturità psicologica e artistica di Vermeer. Il quadro s’intitola Signora in piedi di fronte al virginale, conosciuta anche come Signora alla spinetta (1672) ed è stato dipinto dieci anni dopo il precedente. È un’opera autografa di Vermeer, realizzata nel 1672, con tecnica a olio su tela, misura 51,7 x 45,2 cm, proprietà della National Gallery di Londra. La firma dell’autore compare sullo strumento musicale, che non è una spinetta, come suggerisce il titolo apocrifo, bensì un virginale.
Facciamo una minuziosa analisi iconografica, come si farebbe (o si dovrebbe fare con un sogno). Vediamo ogni particolare della scena.
Al suo interno, il quadro esposto sulla parete frontale a sinistra, viene generalmente indicato come una pittura vicina alle maniere dei pittori tedeschi Allart van Everdingen (1621-1675) e Jan Wynants (1630-1684). Il grande quadro posto in alto e leggermente a destra, raffigurante un Cupido, viene riportato anche nel Gentiluomo e ragazza con musica.
La struttura semantica dell’opera è tanto semplice all’occhio quanto complessa nei riferimenti intellettuali. La giovane donna è sola, non ha alcuna compagnia, né femminile né maschile. È pienamente padrona di se stessa e dell’ambiente che la circonda. La sua figura è colpita dalla luce del giorno attraverso la finestra alle sue spalle. Il volto ne viene rischiarato solo in parte, perlopiù resta adombrato e volto all’interno. La ragazza è ben vestita, di famiglia borghese abbiente, e ci guarda. Ci guarda con uno sguardo composto, come la postura del corpo, ma anche stupito, estraniato da un astratto sorriso misto – forse – a un lieve velo di tristezza.
È una ragazza seria, elegante, pronta per una visita, in attesa. Offre al visitatore occasionale, cioè allo spettatore del quadro, pittore o spettatore che sia, il ritratto sonoro della sua anima attraverso la musica che accenna distrattamente allo strumento. La esegue senza molta attenzione, con l’abilità tradizionale della ragazza da marito; niente di più e niente di meno. Intanto la scena parla per lei e dice ciò che lei non può dire.
Il quadro sulla parete frontale vicino alla finestra ha lo stesso tema della riproduzione sulla parete interna del coperchio dello strumento: una grossa nuvola copre una bassa collina. Forse una allusione alla fertilità. Molto più interessante il grande quadro di Cupido in alto sulla destra.
Nel quadro, il dio dell’amore (Eros per i greci, Cupido o Amore per i latini) è rappresentato in una posa sensuale e impertinente e, a differenza della ragazza, si muove. Impugna con una mano un arco senza freccia (la freccia è stata già scoccata?) e con l’altra mostra enigmatico una carta da gioco. Inoltre, come la ragazza, ci guarda dritto negli occhi.
Si tratta di un tema pagano, ma variato secondo una simbologia rinascimentale: il corpo infantile del dio è animato da un moto irrequieto, come l’amore che evoca, la sua freccia è partita e ha colpito qualcuno. La carta da gioco sta a indicare l’assoluta arbitrarietà degli eventi che seguono allo sprigionarsi del desiderio. Un azzardo, dunque, regola le faccende d’amore. La ragazza, prigioniera di una ragione borghese, che la vincola all’attesa di un pretendente o che il marito rientri in casa, “sa”, conosce (per puro istinto femminile) la potenza drammatica del vero desiderio. Per quanto sia intrappolata dai mobili che le si adunano intorno come una famiglia gelosa o una ronda di soldati, per quanto la sua morbidezza sia umiliata dalle rigorose linee del pavimento e della finestra, qualcosa di lei sfugge: il desiderio d’amore, la voluttà dell’incontro, la segreta volontà di giocare il tutto per tutto. Nonostante il rigore morale, un senso di padronanza emotiva emana dalla sua figura.
Per dirci tutto ciò, Vermeer adotta una simbologia pagana. Se fosse cristiana, penseremmo a una tentazione diabolica. E in effetti, l’impudicizia del Cupido, nonché il paesaggio cupo su cui il suo corpo si staglia, il rimando all’azzardo piuttosto che al merito, hanno un ché di sottilmente infernale.
L’anima femminile
Virginale è il nome generico di una famiglia di strumenti dalla forma genericamente rettangolare, più piccoli e semplici rispetto al clavicembalo e dotati di una sola corda per ciascuna nota, disposta parallelamente (virginale) o angolata (spinetta) rispetto alla tastiera, lungo il lato più esteso dello strumento.
L’origine del termine non è chiara, ma viene spesso collegata al fatto che lo strumento era suonato in famiglia dalle donne giovani delle famiglie stesse, e che questa attività musicale facesse parte delle doti (e della “dote”) di una brava ragazza di buona famiglia. Se forse era destinato a fare da sfondo grazioso al corteggiamento del pretendente e poi alla vita familiare, esso si prestava a fare eco ai sentimenti femminili.
Prigioniera negli spazi domestici di una casa agiata e serena come un cardellino in una gabbia d’oro, l’anima femminile può esprimere il suo canto di richiamo attraverso la musica, e, in un quadro, attraverso il suo sguardo silenzioso.
In entrambi i dipinti qui riprodotti, l’anima femminile (intesa alla relazione, quindi all’amore) è protetta dalla possibile violenza del mondo esterno, ma è altresì imprigionata come un qualunque animale domestico nel recinto della ragione borghese (maschile), ed è pertanto esposta di fatto ad un altro genere di violenza, più sottile e destinato a restare invisibile ai committenti dei quadri. La sua naturale sensualità è prigioniera di geometrie implacabili che non le danno altro spazio che uno sguardo, un gesto, la musica del silenzio. Onore al merito di Vermeer di aver catturato e fermato nei secoli questo sguardo in cui l’implorazione è modesta e trattenuta e non di meno viva e commovente.
Adoperiamo ora il concetto junghiano di Anima e proviamo ad osservare le opere di Vermeer in questa luce. Secondo Carl Gustav Jung l’Anima incarna il lato femminile inconscio di ogni uomo. E per maggiore esattezza essa rappresenta il “rimosso” psichico di un individuo di sesso maschile (o di un’intera cultura maschile) proiettato nella figura femminile. Allora, in questo senso possiamo affermare che le ragazze dei dipinti esaminati incarnano sia l’Anima di Jan Vermeer sia quella di chiunque provi lo stesso sentimento di una vitalità e di un amore prigionieri di una ragione inflessibile, impossibilitato a esprimersi.
Sempre seguendo la suggestione junghiana, potremmo affermare, in un senso non del tutto metaforico, che se queste figure femminili non facessero le loro commoventi apparizioni gli uomini del Nord descritti da Vermeer (e dal Rinascimento fiammingo) sarebbero persone senz’anima. Uomini cinici e avidi, pervasi di individualismo e annoiati della vita. È questa anima femminile, segregata in una prigione d’oro, che ci ricorda che la specie umana è sensibile per natura ed è capace di trascendersi in passioni estatiche, amorose ed altruiste.
Nel mio linguaggio, il linguaggio della Psicologia dialettica, l’Io superegoico – il modello culturale in cui l’Io si declina – contempla in una sua icona drammatica l’immagine rovesciata (dialettica appunto) di se stesso, quindi dei suoi bisogni rimossi. Questo Io del dovere è uno sguardo (maschile o femminile qui poco conta) in grado di penetrare nel mistero dei simboli, di intuire under the skin il fuoco, proprio là dove sembra dominare la forma perfetta del ghiaccio.
La ragazza-tipo dipinta da Vermeer incarna l’Io complementare, l’Io antitetico, dell’Io superegoico, individualista e privo di passioni, che domina l’identità nordica di quegli anni (che ha perdurato invariata fino ad oggi). Più l’Io normativo si vuole chiuso e individualista, più scinde e rimuove da sé un Io antitetico complementare che raccoglie le istanze umane opposte, di apertura e di fusione duale e collettiva.
Lo sguardo malinconico e prigioniero della giovane signora del virginale è l’elemento inconscio dell’Io razionale che domina la figurazione astratta, logico-matematica, dei quadri, che Vermeer sa ritrarre con mirabile lucidità, come lo vedesse riflesso in uno specchio. Ed è appunto questo l’elemento che può scatenare l’eros, la cui icona è nascosta nel quadro appeso alla parete. Come ho spiegato in un mio libro, La paura di amare (Ghezzani, 2012), è l’Io antitetico, cioè l’inconscio, che si innamora. Non è mai la nostra volontà a farlo. Si innamora, chiede ascolto, solo ciò che sfugge al ferreo controllo dell’Io dominante. Ci si innamora, come dice Alberoni (1979), solo quando le condizioni sono mature, ma – aggiungo io – lo sono innanzitutto nell’inconscio.
Cosa nasconde la ragazza del dipinto di Vermeer Signora in piedi di fronte al virginale? Nasconde l’eros, che si svela in forma simbolica nel quadro alla parete; e soprattutto cela la ferita che la freccia ha lasciato nella sua anima. Nasconde il pathos di una natura umana relazionale costretta a inibirsi al contatto veritiero, autentico. Nasconde dunque un inconscio saturo di passioni represse, prigioniero di una ragione pragmatica che umilia la natura umana; un inconscio che anela alla liberazione.
L’anelito alla liberazione dell’anima, nella sua pienezza, è il fondamento della scintilla d’amore, dell’innamoramento. Ma siamo noi, lo sguardo che osserva, che, come un ragazzo inerme, è suscettibile di incontrare quella scintilla e di innamorarsi. Non gli uomini dai traffici pragmatici ritratti nei dipinti. Noi in prima persona siamo coinvolti nel sogno di Vermeer. Noi siamo il suo stesso sguardo, il soggetto che si risveglia, e siamo a tutti gli effetti coinvolti nel suo sogno.
Un dipinto va interpretato come un sogno.
L’individuazione di un artista
Quasi conseguente la vicenda religiosa e sociale del pittore olandese.
Nato protestante, a Delft, vicino l’Aia, nel 1632, Jan Vermeer si convertì al cattolicesimo. Si dice che lo facesse per trarne vantaggio. La comunità cattolica di Delft era ricca e Vermeer sposò una giovane di famiglia cattolica benestante. Questa la spiegazione storica, che privilegia l’egoismo individuale.
La verità psicologica è però un’altra: innanzitutto la madre di Jan era di Anversa, ricca città belga in cui il cattolicesimo era molto vivo; poi la suocera, Maria Thins, madre della moglie e vedova benestante, fu per lui importantissima. Non solo lo accolse nella sua abitazione, ma seppe intravedere in lui il genio della pittura che sarebbe stato e lo promosse in tutti i modi possibili, aiutandolo a diventare il maestro famoso e celebrato delle epoche future. Jan Vermeer e Catherina Boines, uniti in matrimonio, vissero per tutta la vita nella dimora di Maria, a quanto pare senza screzi e in perfetta armonia, generando 14 figli. E quando, a causa di una guerra, dopo aver conseguito molti successi, Vermeer cadde in disgrazia e contrasse debiti, morendo a soli 43 anni per lo stress provocatogli dalla rovina finanziaria (dei 14 figli, 11 erano vivi alla sua morte), le due donne pagarono i debiti cedendo la loro casa, ma tennero per sé le amatissime opere dell’artista.
Fu dunque la Donna, la donna di una tradizione meno ascetica di quella protestante in cui era nato, l’oggetto d’amore dell’anima di Jan Vermeer. Una Donna con tre anime: l’anima cattolica latina non ancora soffocata dalla Controriforma; l’anima pagana del Rinascimento italiano; nonché l’anima femminile in grado di distinguere il genio artistico e di difenderlo al prezzo della propria umiliazione. Furono queste tre anime fuse in una a innamorarsi dell’anima di Jan Vermeer, che le ricambiò. Amore dichiarato sin dalle prime opere. Uno dei suoi primi capolavori, in cui una giovane massaia versa del latte da una brocca, resta uno dei monumenti artistici di ogni epoca volti a sacralizzare l’umiltà dell’attitudine al nutrimento.
Vermeer fu sempre innamorato dell’anima femminile, così resistente alla sottomissione e alla manipolazione sociale, perché quella era la sua stessa anima. In essa, proiettava il suo Io antitetico, era dunque il suo oggetto antitetico, la sua opposizione mite ma viscerale all’ordine di cose esistente, al materialismo gretto della sua epoca.
Infine, una rapida carrellata di alcuni dei suoi notissimi ritratti femminili maturi. Nella famosa ragazza dall’orecchino (1665) e nelle altre donne che guardano dritto lo spettatore, con sguardo franco, Vermeer oggettiva la sua Anima (la sua personalità femminile complementare a quella dominante maschile) e vi rappresenta la sua stessa personale individuazione.
Il percorso psicologico di Jan Vermeer va letto alla luce di alcune coordinate: egli nasce, cresce e dipinge le sue prime opere all’interno della severa mentalità protestante, che in odio al cattolicesimo abolisce ogni rapporto con la materialità delle figure sacre: è abolita la sensualità, quindi l’ispirazione pagana e l’allusione erotica presente nel Rinascimento italiano. L’individualismo, forte della sua cupidigia, s’incarna nella figura maschile; alla donna resta il residuo spazio sentimentale di un ambiente spogliato di amore, generosità, empatia. Gli uomini di potere e quelli avidi di denaro si vogliono indipendenti dai sentimenti altruisti. Mercanteggiano con la donna anche quando sono o appaiono “uomini perbene”. (A questo proposito leggi il mio La lingua perduta dell’amore, 2023).
Finché Vermeer rappresenta questo mondo puritano e borghese con perfetta adesione realistica, la sua psiche langue nella sofferenza: ne viene soffocata sotto il peso dei beni materiali, delle linee geometriche di una ragione calcolante, della scomparsa della vitalità e della freddezza emotiva a beneficio del controllo. Non appena prende il coraggio di essere sé stesso, ecco la sua psiche, incarnata dalla donna, emerge dall’ombra, è l’oggetto estatico, l’oggetto evolutivo, che fissa i suoi occhi nella mente dello spettatore, si staglia con la sua figura.
Parimenti, l’anima femminile, che si era nascosta nell’intrico delle linee, si rivela infine, attraverso impercettibili mutamenti, allo sguardo: lo sguardo dell’artista e il nostro sguardo, uno sguardo che sa riconoscerla.
Bibliografia
Alberoni F., Innamoramento e amore, Garzanti, Milano 1979.
Ghezzani N., Quando l’amore è una schiavitù, FrancoAngeli, Milano 2008.
Ghezzani N., La paura di amare, FrancoAngeli, Milano, 2012.
Ghezzani N., La lingua perduta dell’amore, FrancoAngeli, Milano 2023.